A tavola con Gianni Minà
Con la scomparsa di Gianni Minà salutiamo un simbolo dell'Italia e del secolo scorso. Uomo e giornalista in grado di unire storie, mondi e culture.
Con la scomparsa di Gianni Minà salutiamo un simbolo dell'Italia e del secolo scorso. Uomo e giornalista in grado di unire storie, mondi e culture.
Non ne fanno più di foto così. Due premi Oscar, un Nobel per la letteratura, un regista entrato nell’immmortalità del cinema e l’atleta che, al di là dell’oro olimpico e dei vari titoli mondiali, si è trasformato in icona di un secolo.
Robert De Niro, Gabriel Garcia Márquez, Sergio Leone e Muhammad Alì. Stretti assieme tra il tavolo del ristorante e il flash del fotografo che un po’ infastidisce gli occhi di De Niro. Il sorriso più aperto lo regala il protagonista sulla destra, giacca grigia e nessun alloro mondiale da sfoggiare. Sorride come al termine di una rimpatriata tra vecchi amici, quelle dove storie e ricordi si fondono tra loro, e le ore volano assieme ai bicchieri di vino. Sorride, Gianni Minà.
Non ne fanno più di tavolate così. Vuoi per lo spessore degli invitati, vuoi per quel retrogusto di bottega, il muro di Checco er Carrettiere e le tante, piccole imperfezioni su volti, vestiti, angoli. Non ne fanno più perché quello scatto è crocevia di mondi e culture. E ci vuole un anfitrione speciale per unire universi paralleli. Forse è proprio per questo che sorride, Gianni Minà.
Dev’essere un’abilità sviluppata fin da bambino, quella del saper ascoltare, del chiedere senza invadere. Magari affinata tra i banchi di scuola, con Checco da un lato ed Ennio Morricone dall’altro. E poi via, assieme anche a Sergio Leone, tra le vie di Trastevere e la scalinata di Viale Glorioso.
Se cresci così, è facile scoprire che il tempo non scorre uguale per tutti. Che non segue una linea retta e spesso si disperde sul tavolo come migliaia di granelli di sabbia. Allora capisci l’amore per l’America latina, per certi ritmi e certe storie. Se entri in connessione con quel ritmo di battito cardiaco è un niente trovarsi fianco a fianco con Fidel Castro, Maradona, il subcomandante Marcos ed Hebe de Bonafini. Certo, magari finisci per ostracizzarti certi salotti della RAI, ma avrebbe sorriso anche di questo, Gianni Minà.
C’è un gusto artigiano in quelle interviste. Di chi impugna l’arma, un microfono, con rispetto. Per chi ha davanti, per le sue parole e, soprattutto, per il proprio lavoro. Gianni Minà aveva un’idea chiara dell’essere giornalista, e in tanti hanno capito di voler fare lo stesso mestiere rispecchiandosi in essa. Perché «è sotto la punta dell’iceberg che bisogna mettere la testa».
Andare a braccetto con i miti ti insegna tanto. Ad esempio l’importanza del saper mutare, consapevoli che certi gioielli possono continuare a splendere solo se stanno al passo con le abitudini di un pubblico che evolve assieme alla società.
Per questo una delle ultime fatiche è stata quella di digitalizzare il suo archivio audiovisivo inedito. Vedi mai che a qualche adolescente possano capitare tra le mani le chiacchierate con Bob Dylan, Troisi o Galeano. Oppure le storie di Ilaria Alpi e Antonino Caponnetto. Non smette di fare regali, Gianni Minà.
È bello immaginare che, ora, ci siano gli stessi amici ad attenderlo. Un altro tavolo sul quale riversare manciate di sabbia. Spargerla e disegnarci con le dita. Cancellare tutto e ricominciare, sapendo che proprio in quel continuo rimescolarsi sta il sapore vero di una storia.
Ci perdonerà anche se abbiamo atteso qualche ora per scrivere queste poche righe. Perché gli artigiani sanno che certi lavori richiedono più tempo di altri. E che non li puoi preparare prima per averli già pronti, preconfezionati, solo da tirare fuori dal cassetto.
Non ne fanno più, di Gianni Minà.
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