Il rooming-in è la possibilità che dopo il parto il neonato stia nella stessa stanza della madre; sembra essere fondamentale per il legame tra madre e figlio perché crea delle condizioni funzionali e psicologiche di connessione tra i due che sono assolutamente essenziali nel rapporto non solo fisico ma anche psichico futuro. Anche il bonding, cioè far attaccare subito al seno della madre il bambino appena nato con il cordone ombelicale non reciso è fondamentale. Il contatto pelle a pelle è assolutamente essenziale per lo sviluppo ottimale della relazione madre-bambino.

Questo è quanto si legge in letteratura e quanto viene applicato normalmente nella maggior parte degli ospedali. Quello che parallelamente forse è andato a sfumare nel tempo e in alcuni casi è andato perduto, è il contesto in cui tutto questo avviene, ovvero il lying-in, più conosciuto come puerperium: il periodo di tempo che inizia subito dopo il parto e termina con il ritorno dell’apparato genitale alle condizioni anatomo-funzionali pregravidiche.

Convenzionalmente si assegna a tale periodo una durata di sei settimane. Subito dopo l’espulsione della placenta – secondamento – le prime due ore sono definite post partum per i drastici cambiamenti che le caratterizzano, che segnano il passaggio dell’organismo dallo stato gravidico a quello puerperale.

Questa definizione di puerperio lascia delle perplessità perché estromette la dimensione psichica (sottolineata invece nella definizione di rooming-in) dimenticando che anch’essa viene influenzata dalla gravidanza, dal parto e dal cambio su più fronti che questi eventi comportano. Non siamo solo corpo, non siamo una macchina da aggiustare o ripristinare.

Una relazione nasce tra due individui che imparano a conoscersi  e questo vale anche per una madre e il suo bambino. Ma ci rendiamo tutti perfettamente conto che, perché questo avvenga, non è sufficiente il – seppur sia favorito dal – rimanere fin da subito nella medesima stanza indipendentemente dalle condizioni emotive e fisiche; si rende necessaria un’interazione che nel caso specifico dovrebbe essere il più possibile “sufficientemente buona”.

Ci vuole tempo

Perché questo avvenga è importante che la madre sia in grado di farlo, è importante cioè che sia supportata nel riuscire ad esprimersi anche nei suoi bisogni di essere altrettanto accudita e sostenuta, incoraggiata e consolata nei momenti di eventuale sconforto e che abbia la possibilità di dire della propria stanchezza e del bisogno di riposo, da sola, senza sentirsi poco materna o addirittura  cattiva per questo

È importante che abbia la possibilità di condividere che forse non conosce alcune cose o che ha delle paure legate spesso ad un sentimento ambivalente nei confronti della nuova condizione in cui si trova. 

È importante che si senta comunque un essere umano nel suo insieme psichico e somatico. In questo modo la si aiuterebbe a fare i conti con la nuova realtà che seppur “naturale” non obbligatoriamente risulta sempre facile. Di solito il parto comporta una certa felicità, una curiosità di conoscere il nuovo nato e la ricerca, il desiderio di ridurre la separazione che crea, spingendo al ripristino di quell’unione madre-bambino durata mesi; ma, spesso, il cambio dell’assetto ormonale, la fatica del parto stesso e la stanchezza che ne derivano o situazioni inaspettate più o meno piacevoli, spingono alla necessità di una sorta di “adagio”, di adattamento alla nuova situazione, estremamente soggettivo. 

Il supporto per la madre

Andrebbe così favorita di certo la immediata e prolungata vicinanza, ma andrebbe altresì oltremodo supportata, accogliendo e rispettando le richieste di aiuto, sostegno e comprensione da parte di una madre di fronte al suo bambino. Potremmo chiederci come questo sia possibile in una situazione odierna in cui gli ospedali sono sempre più sotto pressione a causa di tagli del personale, conti da far tornare e che spesso non tornano, con conseguenti  giorni di ricovero sempre più brevi, per nulla supportivi e ristoratori e giorni a casa trascorsi sempre più in solitudine nei momenti di maggior difficoltà.

Solitudine che spesso nasce dal non poter chiedere aiuto perché manca un riferimento in famiglia o di tipo professionale, oppure perché ciò metterebbe in evidenza la sensazione di inadeguatezza nei confronti di modelli e aspettative così lontani dalla maggior parte della realtà da divenire in alcuni casi una chimera mortifera. Potremmo chiederci come sia possibile sopravvivere ancora a lungo in una scissione così profonda tra ciò che è e ciò che l’efficienza sempre e comunque pretende. Potremmo ma, forse, cominciamo ad essere preoccupati e stanchi di farlo.

E allora potremmo cominciare a parlare sempre di più della normalità delle fragilità, della stanchezza e delle lacrime, della pigrizia, della rabbia, del dolore, del bisogno di dormire, del bisogno di stare talvolta da soli ma non in solitudine.

Tutti, perché di tutti è la dimensione umana.

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