Mario Draghi si è dimesso da primo ministro, convinto che di fronte alla situazione creatasi non ci fosse alternativa. Nonostante il voto di per sé favorevole, il boicottaggio del centrodestra, compattato dalla cena generosamente offerta da Berlusconi nella sua Villa Grande sull’Appia antica, gli ha fatto comprendere che un Draghi bis non sarebbe durato neanche una settimana.

Fortemente radicato nelle istituzioni e conscio di esser un leader nominato ma non eletto, ha deciso di non voler scendere a patti coi giochi di una parte politica che ha mostrato grande opportunismo nel cavalcare la crisi innescata dal Movimento Cinque Stelle, peraltro prima vittima della sua stessa decisione. Cominciare da subito a fare concessioni politiche al centrodestra avrebbe soltanto prodotto un “mercato del bestiame” su ogni singola decisione. E Draghi non è mai stato un estimatore dei complotti, meno ancora dei compromessi.

Gli affari correnti

Meglio quindi fare un passo indietro e restare a curare gli affari correnti, ovvero l’attuazione di leggi e determinazioni già assunte dal Parlamento, così come eventuali “atti urgenti”, azioni anche legislative in osservanza a scadenze non procrastinabili.

Si parla ovviamente dell’attuazione del Pnrr e del Piano per gli investimenti complementari (Pnc). Nel suo primo Consiglio dei Ministri, SuperMario chiede condivisione ai discasteri per qualsiasi nomina si rendesse necessaria. Li ringrazia tutti per i proficui scambi durante il suo governo, anche quelli che sono comodamente seduti in poltrona nonostante abbiano partecipato a causare la crisi, e chiede loro determinazione nel portare a compimento i molti impegni presi.

A partire da quel Decreto Aiuti che è stato il primissimo detonatore della crisi. Ma anche per le decine di obiettivi da portare a casa entro l’anno, pena la perdita della prossima tranche di supporto dalla UE da 19 miliardi di euro. C’è molto lavoro da fare, sia alle Camere sia per i decreti attuativi e Draghi non è certo un procrastinatore, non lo è mai stato. Neanche quando faceva il banchiere.

Fine dell’epoca Draghi

È curioso che negli stessi giorni di luglio il Professore assista all’epilogo della sua esperienza di governo e anche la fine della fase monetaria europea da lui creata, il famoso “whatever it takes” delle politiche non convenzionali e dei tassi zero (o anche negativi). La presidente della Banca Centrale Europea, Christine Lagarde, ha infatti annunciato un rialzo dei tassi d’interesse di 50 punti base, il doppio di quanto atteso dai mercati.

Scelta obbligata, spinta da un’inflazione che segna a giugno un +8,6% (altro che il target del 2%) e dalle decisioni analoghe già adottate dalla FED (aumento di 150 punti) e dalla Bank of England (+125 punti). Allo stesso tempo, Lagarde ha introdotto uno strumento di protezione dalle speculazioni dei mercati, il TPI, per evitare che condizioni simili a quelle del 2011-14 producano una nuova “crisi del debito”, specie nei Paesi più aggredibili, tra cui la nostra amata patria.

Lo scudo anti-spread

Il TPI è in tutto simile allo strumento di acquisto titoli usato finora, il Quantitative Easing, ma senza gli automatismi della soglia massima di spread. Per farlo digerire ai Paesi frugali del nord Europa, il cui debito spesso non raggiunge neanche la metà del PIL, sono previste condizionalità per il Paese che ne trae beneficio, specie in ambito fiscale, anche se ben più leggere di quelle fissate per il MES.

Con l’indebitamento che ha sfondato quota 150% del PIL, è evidente come l’Italia sia il candidato ideale. E la crisi di governo arriva nel momento peggiore, quando invece sarebbe necessario inviare segnali di stabilità e di determinazione nell’implementare le numerose riforme che condizionano i pagamenti europei. Si deve intervenire sul sistema giuridico, la pubblica amministrazione e vanno introdotte norme a difesa dell’ambiente e sulla libera concorrenza.

Crisi politica, debito, spread: chi paga?

Invece l’Italia chiude anzitempo la legislatura e subito si producono effetti sui mercati: borse europee tutte in negativo e spread tra BTP e Bund tornato alle stelle. Supera da giorni i 200 punti ed è arrivato anche a superare la Grecia, che pure ha un rapporto debito/PIL peggiore (190% circa). Una crisi di governo proprio quando gli investitori avrebbero bisogno di rassicurazioni fa crescere la rischiosità del nostro Paese, rende meno appetibili i titoli italiani, che si collocano solo a rendimenti più alti, alimentando un maggior costo di rimborso a gravare sul bilancio dello Stato.

Ci attendono mesi di incertezza, prima che un qualsiasi nuovo Governo sia in grado di insediarsi e cominci davvero a lavorare. La probabile vittoria del centrodestra porterà al potere una coalizione ideologicamente compatibile ma tutt’altro che coesa, caratterizzata da divisioni interne su molte tematiche che dovranno essere affrontate entro il 2023, sempre per non perdere i “soldi dell’Europa”.

Il paradosso populista

Una nuova recessione è alle porte, legata alla guerra in Ucraina e alla crisi energetica innescata dalle sanzioni contro la Russia. L’inflazione sembra senza freni e gli interventi della BCE sui tassi aumentano il costo del denaro per famiglie e imprese, rallentando ulteriormente l’economia. Il nuovo Governo dell’Italia si troverà a dover accettare politiche di rigore e austerità, a confrontarsi con una popolazione sempre più povera.

Fino al paradosso per cui la coalizione di centrodestra dovrebbe sperare di non vincere le elezioni, per non perdere poi (ulteriormente) la faccia sconfessando tutte le promesse populiste che le fanno tipicamente da mantra in campagna elettorale. Non che i nostri politici di qualsiasi partito siano impreparati a fare la figura di cioccolata nei confronti degli elettori; ne abbiamo dimostrazioni ogni dannato giorno.

Speriamo almeno piova, governo sabotato!

© RIPRODUZIONE RISERVATA