L’esito della prima tornata di elezioni presidenziali in Francia non lascia probabilmente sorpresi più di tanto e, dati alla mano e salvo inattese rotture nelle alleanze dichiarate, sembra quasi sicura la riconferma di Emmanuel Macron alla guida del Paese e, non dimentichiamolo, dell’Europa. Vanno al ballottaggio sempre gli stessi: il presidente uscente (centrista democristiano, si direbbe da noi) ottiene il 27,9% dei voti si confronta ancora una volta con Marine Le Pen, candidata di destra che raggiunge il 23,2%. Sfiora il colpaccio la sinistra di Jean Luc Mélenchon con il 22% dei voti, con il suo elettorato che diventa determinante per il risultato finale del ballottaggio, il prossimo 24 aprile. Solo il 7% per la destra xenofoba di Eric Zemmour che, agli occhi disincantati di chi scrive, ha di fatto aiutato Le Pen a migliorare la performance rispetto al 2017.

L’Europa in mano ai vecchi

Lo stesso disincanto che sembra colpire anche l’elettorato. Continente in calo demografico, con una popolazione sempre più anziana, l’Europa non ha più voglia di andare a votare, crede sempre meno che il voto di uno possa davvero cambiare le cose. IPSOS France ha stilato l’usuale spaccato sociologico del voto, confermando l’aumento dell’astensionismo, che si è attestato al 26% degli aventi diritto e riportando come un giovane sotto i trent’anni su due non si sia recato alle urne. Alla domanda successiva, sul perché non l’abbiano fatto, i francesi hanno risposto che “non c’è niente di nuovo nelle proposte” (28%) e “non sono all’altezza del compito (26%) – a quanto pare un sentimento ricorrente in tutte le analisi elettorali a differenti latitudini.

In calo i reati di truffa agli anziani: -13,3% rispetto al 2019 | Ministero  dell'Interno

Dando per (quasi) scontato un altro mandato di Macron, vogliamo provare a individuare questi caratteri in comune tra i Paesi europei, con particolare attenzione alle dinamiche delle compagini di destra. Doverosa premessa: si sono volutamente escluse le nazioni europee dove governa una destra liberticida e autoritaria, basandoci sulla tesi che non è da quella parte che si debba guardare per trarre un esempio.

Esaminare come si comportano i Paesi libertari e a forte vocazione democratica è invece interessante in vista delle votazioni dell’anno prossimo in Italia. Non ne parleremo, preferendo lasciare a ciascuno la possibilità di fare le opportune analogie e di trarre le proprie conclusioni.

La Francia: di padre in figlia

Nel 2002 Jean-Marie Le Pen sorprende tutti battendo il candidato socialista al primo turno delle presidenziali, evento epocale. Provocatore per antonomasia, con le sue esternazioni aggressive si guadagna i voti di reazionari, nazionalisti, omofobi e pure degli antisemiti francesi. Probabilmente non ha davvero interesse a vincere, gli preme creare scompiglio e soprattutto fissare un concetto: la politica tradizionale e le sue élite devono fare i conti con un grande cambiamento.

Jean-Marie Le Pen - Wikipedia
Jean Marie Le Pen

La sua eredità viene raccolta negli anni successivi dalla figlia Marine, in un’operazione politica molto attenta e disciplinata che, liberandosi dei fardelli (e dei colleghi) estremisti del padre, riesce a raggiungere percentuali fino al 40% in alcune zone come Calais o la Costa Azzurra. La sua campagna elettorale mostra toni moderati, quasi in opposizione alla destra oltranzista di Zemmour, e ha raggiunto il voto di persone che mai si sarebbero sognate di votare il Front National nel 2002.

Un’analisi sulle votazioni amministrative regionali del 2015 mostra come la sua quota di elettori tra le coppie gay sia stata del 32% (era il 19% in una simile ricerca di tre anni prima). È arrivata alla comunità ebraica, ponendosi come l’unico partito in grado di difenderla dalle nuove ondate di antisemitismo delle banlieu. Ha dimostrato – e gli attacchi terroristici hanno confermato – che in Francia spesso l’antirazzismo finisce per nascondere un problema che è reale e si è posta come l’unica pronta a sporcarsi le mani e fare i conti. Il filosofo francese (ebreo) Finkielkraut, pur non essendo certo simpatizzante per FN, riconosce a Le Pen il merito di aver mostrato che lo spettro del fascismo è meno reale del pericolo islamista, di aver saputo «distinguere tra i démoni dell’Europa e i suoi nemici».

L’Olanda: tulipani, libertà e Geert Wilders

È sempre il 2002: Pim Fortuyn, la scheggia impazzita della destra olandese, viene assassinato e nove giorni dopo il suo partito omonimo diventa il secondo in Olanda, con il 17% dei voti. Figura molto appariscente, Fortuyn è noto per la sua aperta omosessualità e la predilezione per gli uomini musulmani pur essendo schierato verso il blocco dell’immigrazione. Quando parla di una cultura islamica che «riporta indietro i valori dell’occidente, così duramente guadagnati» crea le basi per una prospettiva diversa, che verrà proseguita da Geert Wilders, da molti considerato il suo erede ideologico. Il suo Partito per la Libertà non ha quote determinanti, è la terza forza del Parlamento con l’11% ottenuto nelle ultime legislative del 2021.

Pim Fortuyn - Wikipedia
Pim Fortuyn

Ma non è questo che interessa qui, bensì il passaggio dall’estremismo urlato di Fortuyn all’approccio più assertivo della nuova destra di governo. Il tema dominante resta l’islamizzazione della società democratica europea, con «masse di giovani barbuti che cantano Allahu Akbar e minacciano la nostra prosperità, sicurezza, cultura e identià». Wilders si pone come l’unico che parla veramente del problema e fa passare l’antirazzismo come un ideale delle élites di sinistra, un concetto burocratizzato a cui è necessario opporsi. Attrae di fatto molti esponenti della sinistra radicale, delusi dall’involuzione di diritti e libertà che ormai davano per acquisite e traditi dalle loro stesse buone intenzioni.

Danimarca: vignette e welfare

Il Partito Popolare Danese (DPP) punta allo stesso tipo di elettorato, con un’ideologia che combina la retorica anti-immigrazione con una nuova forma di welfare, facendo sue le idee a sostegno dei deboli e del popolo che i partiti tradizionali sembrano aver dimenticato. Raggiunge l’apice di popolarità nel 2005, quando la controversia diplomatica e le tensioni sociali create dalle famose vignette su Maometto del Jyllands-Posten sembrano confermare quella che da sempre è la teoria del DPP, che i musulmani non sono altro che «estremisti in attesa di un’opportunità». Alle elezioni del 2015 un danese su 5 vota per il DPP che assurge a secondo partito in Parlamento.

Benvenuti in Danimarca, il paese dei sogni - Linkiesta.it

Lo storico “padrone di casa”, il partito Socialdemocratico (SD), capisce presto la lezione e adatta le sue posizioni all’idea che «uno stato assistenziale di modello scandinavo, con libero ed equo accesso ai servizi sociali, non è compatibile con una politica migratoria aperta». Arriva perfino a passare una legge che chiede agli immigrati con valori oltre 10.000 corone (circa 1300 euro) di consegnarli per contribuire alle spese dell’accoglienza. È chiaro che questo è il nuovo che avanza e tutti i partiti adottano campagne elettorali più caute in tema di immigrazione. Si parla di “questione demografica” per passare il concetto che esiste un numero massimo di immigrati che è gestibile in termini di vera integrazione. Viene spostata l’attenzione all’abitudine, definita “del passato”, di parcheggiare migranti e mantenerli, senza poi favorirne l’ingresso attivo nella società, l’impiego e di conseguenza il contributo fattivo al sistema assistenziale.

Funziona talmente bene, questa teoria, e viene adottata con sfumature diverse da così tanti partiti che nelle elezioni del 2019, il DPP scende al terzo posto in graduatoria con meno del 9% e si affacciano alla ribalta partiti inediti a questi livelli. Di sinistra, centro e destra. Frammentazione unita nella nuova concezione dell’immigrazione come opportunità se dosata e problema se non gestita fino in fondo. Anche la Danimarca va al voto nel 2023, come l’Italia. Un bel test per le nuove democrazie e per i vecchi stereotipi.

Non ci sono più i fascisti di una volta

Dal confronto di alcuni Paesi fortemente democratici e libertari appare evidente che la destra si è rifatta il guardaroba, ha cambiato l’approccio depurandosi da un lato delle derive estremiste e facendo propri, dall’altro, i temi un tempo cari alla sinistra. Altrettanto evidente è il fatto che il tipico “all’armi SON fascisti!” è un refrain che non colpisce più nel segno. I partiti che abbiamo analizzato sono tutti democratici, ben lontani dai neo-nazisti che la vulgata rappresenta; hanno anzi rotto con i simboli e gli slogan nostalgici, hanno cambiato linguaggio e approccio.

Il fascismo non tornerà, non può tornare. Lo hanno capito i partiti di destra e dovrebbero finalmente aprire gli occhi anche quelli di sinistra, che nella loro distrazione si sono fatti sfilare sotto il naso molti dei temi trainanti.

La destra è la nuova sinistra, potremmo azzardare a proclamare: il supporto sociale per i lavoratori e le fasce deboli, dimenticate dalla sinistra che vola alto, una parità di genere non solo declamata ma dimostrata nei fatti, con molte leader donne, e un modello di immigrazione controllata e gestita, che possa diventare un valore aggiunto e non un pericolo.

Non è tanto importante se Le Pen o altri partiti vinceranno in senso assoluto, se arriveranno mai a essere il primo partito nei rispettivi Paesi. Come insegna il caso danese, si può avere enorme influenza sulla politica nazionale anche solo spostando il baricentro del dibattito, portando alla luce le paure e le insicurezze della popolazione, dicendo apertamente quel che molta gente pensa dentro di sé ma non si sente di poter esprimere a voce alta.

La macchina schiacciasassi del pensiero “politically correct” è un’idea della sinistra ma potrebbe anche segnarne l’epilogo politico. Per evitarlo potrebbe servire un cambio radicale (e non radical chic) di prospettiva, una sinistra che torna a parlare al popolo, che abbandona l’atteggiamento di scherno e superiorità posticcia con cui rigetta le esternazioni di destra per ascoltare davvero i bisogni del Paese.

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