La scintilla per l’ambito internazionale scattata a fine liceo, gli studi all’estero e la dedizione ai temi sociali.

Eleonora Ungaro, ventottenne veronese, ora vive e lavora ad Amsterdam come operatrice umanitaria per Medici Senza Frontiere,  organizzazione umanitaria che lo scorso dicembre ha festeggiato i suoi 50 anni di attività – ora anche sul fronte ucraino – e che vede una presenza molto forte sul territorio veronese.

Come ha conosciuto Medici Senza Frontiere? 

Eleonora Ungaro

«Durante un’autogestione organizzata nel mio liceo, il Fracastoro. C’era stata una conferenza su Msf, all’epoca avevo 18 anni e non conoscevo l’azione umanitaria e mai avrei pensato potesse diventare una carriera. Alcuni dei temi trattati quel giorno però hanno risuonato in me, sono sempre stata una ragazzina molto interessata alla politica e ai temi sociali e ricordo di aver fatto tante domande in quell’occasione». 

Il suo percorso di studio l’ha poi portata all’estero, come mai?

«Ho fatto il liceo scientifico indirizzo linguistico perchè mi sono sempre piaciute le lingue. Poi ho scelto Scienze politiche, ero interessata all’ambito internazionale e avrei potuto farla in Italia, però venne a tenere un incontro a scuola un ragazzo che aveva studiato in Francia e mi sono detta “perché no?”. Così ho preso una doppia laurea in Storia e in Scienze politiche alla Sorbona e poi sono andata in Canada per sei mesi dove ho studiato gender studies, migrazioni internazionali e climate change.

Nel frattempo cresceva l’interesse per l’ambito umanitario, anche in conseguenza alla crisi del 2015 con il conflitto in Siria, di cui mi aveva toccato molto l’opinione pubblica così divisa sul tema accoglienza. A fine studi ho dovuto scegliere uno stage. Ero stata presa dal Wwf, ne ero entusiasta ma ricordo che qualcosa mi faceva continuare a cercare. Ancora non avevo capito che era perché sentivo che forse non era la mia strada. Alla fine c’è stata l’offerta di Msf a Ginevra e li è iniziata la mia avventura con loro che dura ormai da cinque anni». 

Avventura che si è trasformata in un lavoro…

«Esatto. Ho iniziato appunto a Ginevra come assistente della Program Manager, poi mi hanno inviata più volte in Congo, poi Niger, Camerun, Centrafrica e di recente in Sicilia a supporto di un progetto sulle migrazioni. Il 40 per cento del mio tempo lavorativo lo passo in viaggio e questo mi permette di entrare in Paesi con un alto livello di complessità geopolitica, che come turista sarebbero inaccessibili. Quando sono sul campo mi occupo delle risorse umane e della gestione del budget.

Nelle strutture centrali invece il mio ruolo, da circa due anni, è l’Operation Officer e i progetti che seguo ora riguardano Libia, India, Haiti e Congo. Faccio analisi dei media, ricerca e supporto delle risorse umane, perché avendo tanti operatori che vanno e vengono dai varie nazioni c’è bisogno di organizzare briefing pre-partenza sul contesto del Paese, sui rischi e come muoversi, su quali attività Msf svolge sul campo». 

Qual è stata la missione che l’ha colpita di più?

«Quella in Repubblica Centrafricana. Lavoravamo in un ospedale locale dove Msf supportava il ministero della Salute pubblica locale per un progetto su tema Hiv-Aids in stadio avanzato. Lavoravamo spalla a spalla con i medici del posto, organizzavamo formazioni e io mi occupavo di risorse umane, in partnership con la direttrice delle risorse umane dell’ospedale. È stata un’esperienza incredibile che mi ha richiesto tanta umiltà.

A volte nel mondo dell’umanitario emerge un po’ quell’arroganza da persone privilegiate manifestata con il senso di assistenzialismo. Ricordo in particolare un momento in cui stavo organizzando rinfresco di fine formazione e una bimba piccolina, circa un anno, gattonando ha tentato di rubarmi un biscotto, che ovviamente le ho dato. Era la figlia di una ragazza della mia età che si trovava in ospedale da un mese per assistere il marito. Non essendo infatti questi ospedali molto efficienti, le famiglie vi si trasferiscono per assistere il familiare malato e si accampano all’aperto fuori dalla struttura in tende che ospitano famiglie giunte lì per lo stesso motivo. Vivendo insieme, si supportano a vicenda e cucinano per i malati. Io andavo spesso in ospedale e si era creata così un’amicizia: anche se parlavo solo il francese e non la lingua locale, riuscivamo a giocare, a stare insieme. Si sono creati bellissimi ricordi».

Da giovane donna si è mai sentita discriminata in questo ambiente?

«Mi ritengo molto fortunata. Ora lavorando in Olanda e Svizzera non sento che il mio genere sia discriminato. In alcuni contesti africani non è facile soprattutto sentirsi presa sul serio, ma mi rendo conto del mio privilegio in quanto donna bianca che lavora per un’organizzazione umanitaria in un contesto in cui le Ong hanno un peso così forte. In Centrafrica, Msf è uno dei primi datori di lavoro del Paese». 

Un aspetto pesante di questo lavoro?

«Viaggiando così tanto la mia vita personale – relazioni, stabilità in un luogo – passa in secondo piano. Molti miei colleghi vivono però la stessa cosa e questo crea una comunità molto unita. Mi sono trasferita ad Amsterdam un paio di anni fa perché cercavo di avere qualcosa in Europa che mi facesse sentire più radicata. Ho molta stima per le persone dentro Msf e organizzazioni simili, perché sono realtà serie in cui si fanno sacrifici grandi. Sei lontano dalla famiglia, in contesti di crisi, spesso la sicurezza non è garantita. È un vero gesto d’amore».  

La sede di MsF a Verona

Viaggiando così tanto le manca la sua città, Verona?

«Molto. Sono ormai dieci anni che non ci vivo più, ma mi manca. È una città meravigliosa, a misura d’uomo, fantastica dal punto di vista del turismo, dei vini, dell’opera e dell’arte. Inoltre, quando ero al liceo ho frequentato la scena associativa veronese e ci sono delle persone davvero incredibili».

Cosa invece pensa che manchi?

«Mancano le opportunità per i ragazzi giovani. Io per Verona sogno una maggiore apertura all’internazionalità, anche sui temi vicini a Msf. Ho l’impressione che sia una città per le persone dai 35 anni in su, mentre la fascia 18-35 viene un po’ lasciata indietro. Soprattutto in merito alle opportunità lavorative, fondamentali perché sono queste ad attrarre ragazzi giovani e competenti. E poi, dato che tanti ragazzi partono per frequentare l’università fuori, manca un po’ la partecipazione entusiasta dei giovani alla vita cittadina. La Verona che piace a me è quella in sintonia con i valori dell’accoglienza, della solidarietà, dell’uguaglianza, del supporto reciproco». 

Valori portati avanti anche da Msf…

«Assolutamente. Msf è una realtà molto attiva a Verona. Crea iniziative volontarie come eventi, conferenze, dibattiti, proiezioni di film e lavora moltissimo nelle scuole per dare visibilità a questi temi ai giovani, perché spesso non sanno nemmeno che c’è la possibilità di lavorare in questo ambito, di fare l’operatore umanitario. E sempre di più si ricercano professionisti nel non profit. È un lavoro davvero bello, che va raccontato ai ragazzi. I volontari di Msf che portano avanti i vari progetti e li fanno conoscere fanno un grande lavoro». 

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