Hip Hop Special: Verona
Prosegue il nostro viaggio nella cultura hip hop e, con l’aiuto di Alessandro Zampini, aka Zampa, uno dei suoi storici protagonisti, proveremo a conoscere il panorama passato e presente di Verona.
Prosegue il nostro viaggio nella cultura hip hop e, con l’aiuto di Alessandro Zampini, aka Zampa, uno dei suoi storici protagonisti, proveremo a conoscere il panorama passato e presente di Verona.
Una città, quella scaligera, dipinta come sonnolenta e razzista che però, a un occhio meno superficiale, si rivela fucina di idee e di divertimento.
Alessandro Zampini, aka Zampa (e molti altri alias, ovviamente) è nato e cresciuto alla Carega, ha vissuto e fatto la storia dell’hip hop all’interno delle mura ma soprattutto al di fuori. Oggi ha la maturità dei suoi anni ma anche la spontaneità del ragazzino. Ha un sorriso sempre pronto ad aprirsi e lo sguardo pieno di sogni e intelligenza.
«La cosa più bella dell’hip hop – esordisce – è che trasforma un’amicizia nata per passione in una fraterna, che supera gli anni. C’è un senso di unione, di far parte di una cosa più grande che tutti percepiscono. Quando ero un ragazzino, i grandi mi portavano con loro alle jam, mi spronavano a buttarmi nella mischia. Dj Fabio e Zeta sono gli stessi che hanno prodotto il mio primo demotape e anche il primo vero disco ufficiale. La loro Vibrarecords è stata un punto di riferimento per tanti artisti, andavi a farci un giro al sabato e trovavi Fibra o i Dogo. Poi è cambiato tutto, giustamente, ma quei tempi sono ancora dentro di me.»
Fatico davvero a immaginare una Verona così vivace, in un genere al tempo tanto lontano dal mainstream. Raccontami come è andata e dimmi se è vero che all’inizio suonavi i Nirvana…
«Tutto vero – ride – e anche Alice in Chains e Metallica. Grunge e rock mi hanno formato ma un giorno ascoltavo Radio Deejay, Venerdì Rap, e una canzone incredibile mi ha folgorato (Rage Against The Machine, mica dei principianti – nda). Sono andato fuori di testa, anche perché nel rap puoi usare molte parole e io, stonato e innamorato della scrittura, mi sono subito sentito nel mio elemento.
Avrò avuto 14-15 anni, metà anni Novanta. Sono andato a cercarmi la subcultura, ero sicuro che qualcosa ci fosse. La mia prima volta col rap è stata alla Festa in Rosso, che era ancora in piazza delle poste. Suonavano i Codice Rosso di Fabio e Zeta e sono salito sul palco alla fine. Lasciavano open mic e chiunque poteva provarci. Ero un bocia ma non sono mai stato timido. Per me il rap, da quella prima sera, è massimo divertimento e basta.»
Dai, racconta di quegli anni, eri anche tu sotto la Standa? Dove e come riuscivate a trovarvi, senza cellulare o luoghi di aggregazione?
«Avevamo dei luoghi storici di ritrovo, la gente semplicemente sapeva che il sabato ci poteva trovare là. I “vecchi” si trovavano sotto i portici della Standa, erano la famosa crew Zona 34: rapper, writer, breaker e dj che hanno fatto la storia. La mia generazione cade a metà strada tra i vecchi e gli attuali. Ci vedevamo sotto il grattacielo, eravamo tantissimi, anche cento persone tutti a fare freestyle o ballare. A parte qualcuno che si trova ogni tanto a fare break dietro l’Areano, ormai cose del genere non ci sono più. Al netto del Covid, secondo me si è persa tra i più giovani l’abitudine di andare a viversi il genere in semplicità, per strada. Manca quel confrontarsi che mi ha arricchito tanto da ragazzo.»
Eppure qualcosa che si muove c’è ancora. Quest’estate sono stata a vedere alcune battle, come ai vecchi tempi. Era un appuntamento fisso, tutti i sabato, con ragazzi anche da fuori a contendersi la vittoria a suon di barre e improvvisazione. Un ambiente bellissimo, dove tutti erano uguali, indipendentemente da colore età o sesso.
«Ci sono ragazzi che fanno cose belle, che organizzano gare di freestyle, anche allo skate park di via Galliano. Ma non so, sembra che l’aggregazione finisca lì, con il vincitore. Una cosa che sento differente è proprio questo: per me la musica è sempre nata dal vivo, all’aperto. Oggi si tende a farsi i fatti propri, tutto nasce in un gruppo più ristretto. Si esce dalla cameretta solo se qualcuno organizza cose fighe, ma manca il senso di appartenere a qualcosa di più grande, a un movimento allargato.
Quando ho iniziato io era un sentimento molto forte. Era un mondo pieno di colori, di libertà di espressione, e uguaglianza. C’era il tipo normale, il figlio di papà, quello magro e quello grosso: tutti insieme senza problemi, oltre qualsiasi preconcetto. Un livellamento delle differenze, nel segno del “peace unity and fun”.»
Nei miei articoli precedenti ho spesso parlato del linguaggio crudo e aggressivo del rap americano, ma anche della difficoltà insita nell’italiano ad adattarsi alle metriche senza risultare prevedibile. Nei tuoi testi ci sono immagini forti ma preferisci rinunciare al ruolo di rapper volgare, non ci sono parolacce fini a sé stesse.
«La musica è uno strumento e ho sempre pensato, nel mio piccolo, che a passare dovessi essere io. Non ho mai copiato gli americani perché farlo mi avrebbe fatto sentire scemo. Adesso tutti scopiazzano, è normale. Guardi quelli bravi e cerchi di fare come loro. Poi però devi fare un passo importante: usare la tecnica imparata da quelli bravi per raccontare cose tue. Mica come questi ragazzetti di Borgo Trento che si fanno i video gangsta rap… a me vien solo da ridere.
Quando un giovane mi chiede consiglio, gliene do due. Primo, cerca di essere unico, di cantare la tua storia, qualcosa che sei solo tu. Secondo, evita le maschere, i personaggi che non ti rappresentano perché rischi di cadere nel grottesco. Ma gli dico anche che sono solo un vecchietto che ci crede ancora, non so come si fa a fare soldi.
Ci tengo ai miei testi, al messaggio che passano. Mi piace che siano profondi e leggeri, che stiano bene con il flow. Ma adesso, nel rap il contenuto vale forse il 10%, mentre come appari è il 90%. La musica stessa si guarda su uno schermo, invece di andare al concerto. È sempre più usa e getta, subito dimenticata per il pezzo nuovo. A questa cosa non mi abituo, ora tutte le crew hanno il social media manager, il fotografo, il videomaker.
Ti dico una cosa magari presuntuosa. Per come faccio rap, per quello che scrivo e quello che sono, non ho sbatti, mi sento a posto. Sull’apparire invece mi manca la capacità e la voglia di raccontare ogni respiro sui social. I giovani sono più bravi, la generazione dei contenuti multimediali, io sono fermo al contenuto tecnico. Io mi racconto attraverso la musica, è quello il mio social. Mi intristisce vedere certi che fanno milioni di visualizzazioni per un paio di scarpe e mille per il pezzo nuovo.»
Parliamo del disco. “Chi tocca i fili muore” è uscito a fine 2021, periodo difficile per la promozione. Eppure sta andando benissimo. Rispetto alle tue produzioni passate, si sente la maturità, nei testi ma anche nella scelta dei compagni di avventura. Con Capstan voci e ruoli si fondono bene e Manny Mani ha fatto un gran lavoro di produzione, per un disco che suona davvero bene.
«Un album figo – fa una pausa e sgnignazza – per uno della mia età. Mi piace far musica ma ho scollinato i 40 e non potevo scrivere le cose dei 20, non mi ci riconosco e non sarei stato credibile. Tutti gli amici di anni continuavano a mandarmi basi simili a quelle già usate ma volevo qualcosa di diverso. Con Manny ho capito che lui aveva il flow giusto per il nuovo me, più fresco e moderno. La cosa difficile nel rap è trovare equilibrio tra testo e flow, tra cosa e come lo dici. Devi dire cose in modo musicale e piacevole per le orecchie.
Sono convinto che le parole siano nascoste nel beat, la bravura sta nel far emergere frasi che sono già nella musica. Manny ha aggiornato il suono, con toccate di drill e trap, ma senza stravolgerlo. Non sono critico sulla nuova scena, musicalmente mi piace. Sono tutti bravi tecnicamente ma parole che ti smuovano, che senti anche tue ne trovi poche. Marracash ha avuto coraggio di mettersi in gioco, con testi intimi. Io ho voluto inserire testi allegri, ironici e qualche pensiero profondo quasi psicologico, senza esagerare.»
Sulla scena veronese, ti sembra che si stia muovendo qualcosa? Ti presti a fare il giudice nelle freestyle battle, ti piace conoscere le nuove leve. Un altro lato dell’hip hop che amo molto è che la competizione serrata dura quanto la gara e poi si trasforma in grande festa e si torna tutti amici. Tutti uguali.
«E ti assicuro che non è una posa. In una gara di freestyle può vincere chiunque. Ci sono quelli di crew famose, gente che se la tira insieme all’ultimo ragazzino del parchetto. Tutti sanno di avere le stesse possibilità, che se spaccano vincono, che nella sera giusta possono battere il più forte del mondo. E adesso ci sono tanti ragazzi fortissimi che girano qui, spero abbiano la costanza e la fortuna di continuare.
Quello che mi dispiace è che in una città come Verona dovremmo conoscerci tutti tra di noi, invece li devo scoprire alle battle. E non si conoscono tra di loro, anche se magari vivono a quattro strade di distanza. Ci sono gruppi di amici che fanno cose insieme ma manca una scena unita. Il lockdown non ha certo aiutato, questi due anni hanno resettato il mondo, cancellato la scena live. È in atto un tentativo di ricompattarsi e, sotto il profilo della qualità, a Verona non cè mai stata così tanta gente brava, forte e originale.»
Ultima domanda, molto interessata. Se io potessi andare a un solo concerto rap quest’estate e dando per scontato che Eminem non ci faccia un nuovo regalo milanese, chi devo andare a vedere? Abbi pietà delle mie orecchie anziane, eh!
«Salmo. Vai a vedere Salmo. È un fottuto fenomeno, in assoluto il rapper italiano più bravo che abbia mai visto. Poi sta cosa dell’età… mi consolo pensando che quelli della mia generazione, tipo Fibra, Guè o Marra, sono tutti ancora là fuori e spero ci sia ancora un posto anche per Zampa.
Quarant’anni è l’età buona per scegliere quello che voglio fare. Devo reagire: adesso ho la testa, sono più sicuro, ho il mio seguito ma senza live è dura. Spero che questa primavera si torni a vivere e fare cose dal vivo, magari potresti venire anche al mio di concerto… sono più lontano dal bocia che ha vinto allo skate park che da te, se ci pensi. Vieni qua, facciamo un selfie!»
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