Essere biologo marino significa studiare il mare, i suoi abitanti, e la relazione che c’è fra loro e l’ambiente. Oltre all’interazione fra le azioni dell’uomo e la salute del mare.

È questo il lavoro in ambito Stem di Martina Capriotti, protagonista della prima storia di “Stem by me” – una raccolta di interviste in formato podcast in uscita oggi, venerdì 11 febbraio 2022, in occasione della Giornata delle ragazze e donne nella scienza. Il podcast è parte del “Progetto Ewa”, pensato come collegamento tra le studentesse più giovani e il mondo scientifico-tecnologico, passando per le esperienze di ragazze che già applichino la loro passione per le scienze a livello di studi o lavoro. Il tutto, condito da funzioni che integrino AI, realtà aumentata e gamification per accompagnare le utenti a scoprire, perché no, il lavoro del proprio futuro.

Martina Capriotti

Martina Capriotti è la prima di dodici giovani donne che hanno aperto il proprio mondo professionale al lettore-ascoltatore. Ci racconta in poche parole come ha saputo unire due professioni, come la ricerca e la biologia marina: «Come sappiamo, l’uomo purtroppo quotidianamente inquina il mare e quindi i biologi marini e ricercatori cercano anche di capire il livello di impatto, di stress, che stiamo provocando all’ambiente marino. E, come ricercatrice, in questo momento, mi trovo negli Stati Uniti per un post-doc all’Università del Connecticut finanziato da National Geographic.»

Capriotti, qual è stato il suo percorso per arrivare a essere una biologa marina e poi un’esploratrice per National Geographic?

«Mi sono laureata in biologia marina, appunto. Ma se facciamo un passetto indietro, a prima della laurea, io non mi sono buttata immediatamente nella scienza. Sono una ragioniera, diplomata perito tecnico commerciale. Ed è stato proprio durante quegli anni di studio che ho capito che la mia passione era un’altra. E quindi ho visto il mio futuro cambiare rotta.»

L’amore per il mare ha avuto il sopravvento? Che cosa è successo, che cambio di rotta c’è stato?

«Più che cambio di rotta, c’è stato un consolidamento, una miglior visualizzazione del mio futuro. La mia vita personale e professionale ad un certo punto si sono incontrate. Io ho sempre avuto una passione molto forte per il mare, ho sempre nuotato, poi da adolescente ho fatto il corso di salvataggio, e poi sono diventata subacquea ed è stato proprio durante quelle prime immersioni subacquee che sono rimasta letteralmente affascinata dalla bellezza della vita sottomarina. Subito dopo essermi diplomata, ho studiato biologia marina e poi ho deciso di fare il dottorato, perché la ricerca e la curiosità era un po’ il mio pane quotidiano. E diciamo che la ricerca è ciò che mi ha permesso di continuare a studiare, anche finanziariamente. Infatti poi ho fatto il dottorato in “Scienze della vita e della salute” all’Università di Camerino, che ha una sede distaccata a San Benedetto del Tronto, nelle Marche, proprio la città dove sono nata, dove sono cresciuta e dove ho avuto l’opportunità e l’onore di lavorare e soprattutto di studiare le cose che amo. In questo momento, invece, sono esploratrice per National Geographic per un progetto di analisi di microplastiche in mare. E ho la fortuna di fare molta attività educativa e divulgativa, l’opportunità di raccontare il mio lavoro e di sensibilizzare l’opinione pubblica sull’inquinamento, in particolare l’inquinamento da plastica.»

Quindi non serve seguire corsi in università per forza private o all’estero per arrivare poi a fare il lavoro dei propri sogni…

«Esatto. dalle piccole alle grandi università, dai centri pubblici a quelli privati, tutti possono fornire un’offerta formativa di altissima qualità, ma anche una certa ricerca di qualità. Quindi sì, il mio è un esempio – io vengo da una piccola realtà come quella di Camerino e mi sento fortunata perché spesso nelle piccole università c’è più attenzione agli interessi e ai bisogni dello studente. Ci sono più opportunità e quindi anche da questo punto di vista è stato sicuramente molto utile per la mia formazione e la mia carriera.»

E, oltre alla sua passione sfrenata per i fondali marini, quali competenze sono necessarie per il suo lavoro?

«Già con la passione diciamo tanto! Purtroppo, infatti, vista la limitata considerazione di questa professione in Italia, è un’attività piuttosto instabile e poco remunerata. Se non si è mossi da un vero amore per il mare, è difficile sopportare condizioni meno favorevoli di altri lavori. E poi serve tantissima acquaticità perché c’è sempre un buon motivo per immergersi o fare campionamenti a bordo di imbarcazioni. E poi, chiaramente, la curiosità, la voglia di esplorare e di conoscere. E non intendo soltanto in termini fisici e logistici, ma proprio in termini mentali. Spesso si può esplorare anche all’interno di un laboratorio tra microscopi e provette. È proprio l’attitudine, mentalmente, di abbattere i confini e avere la curiosità di capire il funzionamento della vita.»

C’è qualche mito da sfatare, mettendo il naso sott’acqua?

«In realtà, più che sott’acqua, i miti da sfatare sono sulla terra ferma. Vorrei che la gente si rendesse conto che la maggior parte dell’inquinamento marino è dovuto proprio alle azioni dell’uomo, tanto di quello che vive sulla costa, che nell’entroterra. E che la nostra sopravvivenza e la nostra salute sul pianeta Terra sono strettamente correlate a un buono stato di salute del mare. Quindi, quando facciamo del male al mare, automaticamente tutto ci ritorna.»

Da ogni arola emerge quanto il suo lavoro sia davvero frutto di una grande passione

«Penso sia importante far conoscere a tutti la situazione della natura, fare divulgazione, e vi saluto proprio con il mio mantra: “Solo se conosciamo la natura, possiamo effettivamente amarla, e solo se la amiamo, possiamo effettivamente proteggerla”. Quindi ricordiamoci che è proprio il piccolo sforzo di ciascuno di noi a fare la differenza. Ognuno di noi dà il proprio contributo per salvaguardare il pianeta, ogni giorno.»

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