L’arrivo di Omicron
La pallavolo, così come gli altri sport di squadra e, più in generale, ogni ambito della società civile, in queste settimane ha dovuto fare i conti di nuovo con le criticità proposte dalla pandemia. Nel mese di dicembre, infatti, Omicron si è diffuso con velocità incredibile tra gli atleti e gli addetti ai lavori. All’inizio con focolai isolati in poche squadre, poi mostrandosi con forza, e infine ha coinvolto la quasi totalità delle formazioni entro i primi giorni di gennaio. Nessuno escluso: dalla SuperLega fino alle minors e alle categorie giovanili, nel maschile come nel femminile.

Problemi di calendario  
Se il problema sanitario è molto ridotto rispetto agli anni scorsi, il Covid-19 rimane un problema enorme per il vertice del movimento. La SuperLega è alle prese infatti con un calendario congestionato di appuntamenti, specie per chi ha in agenda anche impegni internazionali. Così diventa sempre più difficile trovare una soluzione ai sempre crescenti rinvii delle gare. In questo contesto, ognuno cerca di risolversi le sue grane. Da un lato, a volte, con il buon senso rinviando eventi quando il numero delle positività in squadra lo suggerisce, dall’altro forzando situazioni e protocolli al limite estremo per giocare a tutti i costi. Magari si finisce pure per andare in campo senza molti titolari.
In ogni caso, quello che viene meno è la regolarità sportiva, sacrificata a vantaggio dell’andare avanti, del rispettare gli impegni presi con le televisioni, proponendo allo spettatore e al tifoso uno spettacolo di gran lunga lontano da quello ottimale.

Ognuno ha esigenze diverse
Si adattano tutti, per carità. In pandemia è giusto che si adatti pure il pubblico. Davvero non sarebbe possibile in corsa trovare una soluzione che preservi la regolarità del campionato? Davvero le televisioni non accetterebbero un cambiamento della formula? Magari facendo disputare la regolar season in sequenze di concentramenti più densi di appuntamenti sullo stile di final four o di tornei giovanili a “ondata omicron” passata? Le implicazioni da valutare sono molte, ma la sensazione è che il tavolo delle decisioni sia sempre affollato da attori dalle esigenze troppo eterogenee perché possa essere escogitata una risposta comune, creativa e innovativa.

Il caso della Coppa Italia di serie A2 femminile
Se in SuperLega le cose non vanno bene e ci si adatta allo spezzatino del calendario, come spesso accade la Lega femminile riesce a proporre qualcosa di peggiore. Proprio nel momento del diffondersi di omicron in Italia, il calendario femminile prevedeva le cosiddette finals di Coppa Italia di serie A2, da disputarsi a Roma il 6 gennaio. Con il campionato in corso, anche con turni infrasettimanali, la fase di qualificazione sarebbe stata in ogni caso una corsa folle, a prescindere dall’intervento del Covid-19.

Questi i fatti: alla fase di qualificazione, turno quarti di finale, tra le altre partecipavano Futura Giovani Busto Arsizio e Eurospin Ford Sara Pinerolo che si sarebbero dovute scontrare il 22 dicembre. Le lombarde, trovate delle positività in squadra, chiedono e ottengono il rinvio al 26 dicembre. Poi però, si positivizzano anche delle atlete di Pinerolo, che non può scendere in campo nel giorno di Santo Stefano. La Lega non ha soluzioni per lo spostamento ed elimina Pinerolo. Le finals si devono disputare il 6 gennaio e non c’è tempo per ulteriori recuperi, questa la sentenza inappellabile.

Già a questo punto si potrebbe celebrare il funerale della credibilità sportiva, ma il fato ha in serbo un’ulteriore sorpresa. Alla vigilia della finalissima, Omag Mt San Giovanni in Marignano non può scendere in campo, avendo più di tre positive in organico e pertanto viene deciso che la Coppa verrà assegnata in data da definirsi, medesimo evento che, pochi giorni prima, era fuori discussione spostare.

Professionismo o dilettantismo
Contestare ad occhi chiusi l’operato di una Lega femminile che si trova a dover far fronte ad una pandemia e che deve prendere decisioni emergenziali e impreviste tutti i giorni, può essere per certi versi ingeneroso e superficiale.
Qualcosa di meglio si poteva in ogni caso fare a tutela della regolarità sportiva e degli interessi di chi ha investito del denaro. Il problema però non sta solo nella credibilità della Lega, già ai minimi termini per annose questioni. Il problema centrale è l’eterno dilemma tra dilettantismo e professionismo che in Italia ha un confine sottile, spesso indecifrabile nella sostanza, più che nella forma.

La serie A2 femminile, nel caso di specie, è una categoria in cui solo una parte degli attori è professionista e può permettersi di subire tante limitazioni. Le difficoltà logistiche di un calendario schizofrenico, ad esempio, o il vivere in perenne isolamento, vuoi per ridurre il rischio di contagio, vuoi per preservare i propri cari, vuoi perché in quarantena. Sono i problemi di un lavoro, certo, e come tutti i lavori ci sono dei rospi da ingoiare, a prescindere dal reddito generato.

Solo una parte però degli attori sono professionisti, gli altri sono appassionati, dilettanti, spesso ben poco remunerati, che hanno un altro lavoro principale, una famiglia a cui badare, impegni che vanno al di là dello sport. A loro non si pensa quasi mai. Atlete giovanissime che vivono lontano da casa, ingaggiate con contratti in assenza di tutele e forse nemmeno la garanzia di un rimborso spese. Non sono poche in A2, come in altre categorie, a trovarsi in questa situazione, così come assistenti, scoutman, preparatori, personale medico, assoldati a inizio anno per pochi euro e che solo per passione o speranza di futura carriera accettano compensi irrisori se commisurati alla professionalità che portano al sistema.

Il Covid-19 ancora una volta sta facendo emergere questa cronica incongruenza del sistema sportivo italiano, in cui quasi nessuno è professionista vero e proprio, in cui il sistema stesso viene retto dal dilettantismo e dal volontariato, con compiti e responsabilità da professionisti. Questi attori oggi, alla prova Omicron, stanno subendo effetti collaterali che potrebbero pregiudicarne la continuità all’interno del movimento. Dovrebbe essere un tema centrale nei pensieri di Leghe e Federazioni.
 
Le minors

Le minors del volley si stanno fermando una ad una. Prima il giovanile, dove gli interessi economici sono modesti ed è più semplice da interrompere, poi le categorie provinciali e regionali, queste ultime con una decisione dell’ultimo momento, visto l’incredibile numero di gare che sarebbero saltate per Covid.

Proseguono invece B1 e B2, ma è una continuità di facciata perché le gare che si stanno disputando sono inferiori a un terzo di quelle in programma. Il tutto condito da una certa incongruenza del protocollo federale che, da un lato segnala di affidarsi ai regolamenti sanitari in caso di positività all’interno del gruppo squadra – isolamento dei positivi, quarantena degli altri di durata variabile a seconda della posizione vaccinale dei singoli –, dall’altro invita, ma non obbliga, a giocare se le positività non sono superiori a tre, numero che sarebbe comunque sufficiente per porre in isolamento tutto il gruppo squadra, salvo situazioni eccezionali.  

In sostanza si naviga a vista e si applica il buon senso, quando presente, ben sapendo che la regolarità sportiva è in mano alla sorte e, ancora una volta, è l’ultima delle questioni sul tavolo.  

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