La cultura classica come sfida alla complessità
La percezione dialettica della realtà e la cultura dell’ascolto sono le sole vie attraverso le quali può nascere anche una scelta di mediazione.
La percezione dialettica della realtà e la cultura dell’ascolto sono le sole vie attraverso le quali può nascere anche una scelta di mediazione.
Poco più di un anno fa iniziavo la mia collaborazione con «Heraldo» pubblicando una riflessione dal titolo La percezione dialettica della realtà. Sul filo di questo tema si sono succeduti poi diversi interventi nei quali, in modo più o meno esplicito, ritornavo sul tema delle opposizioni come fertili occasioni generative di innovazione e di evoluzione dinamica della cultura. Le vicende travagliate di questi giorni hanno posto in evidenza come di fronte ai fenomeni di difficile lettura, e ancor più complessa interpretazione, sia inevitabile il sorgere di posizioni contrapposte, di atteggiamenti fortemente contrastanti e perfino conflittuali. Secondo una visione fortemente tradizionale, la sola forma per il superamento delle opposizioni è quello di annientarle, così da stabilire senza problemi una linea di condotta condivisa da tutti; tutti coloro, ovviamente, che accettano e condividono la linea del vincitore. Il fatto è che se, in un passato anche recente, la contrapposizione fra blocchi si configurava non solo come opposizione ideologica o politica, ma anche come profilo di gusti, sensibilità, atteggiamenti istintivi, tanto che si poteva parlare di progressisti e conservatori, oggi le cose sono ben diverse. Non solo di fronte al coronavirus, ma anche nel campo delle scelte etiche in relazione alle possibilità tecnologiche e scientifiche, o in quello più delicato e scivoloso della definizione degli orientamenti sessuali, della propria identità di genere, delle personali scelte nell’educazione dei figli, le posizioni sono trasversali e le aggregazioni di omogeneità non hanno profili ben definiti sul piano culturale e politico.
In altre parole sta emergendo con chiarezza che il soggettivismo collettivo al quale si pensava di affidare la soluzione di tanti problemi, anche politici, non regge più. La spinta a opporsi di fronte a posizioni di maggioranza su temi che investono la specificità individuale è incontenibile, e le variabili sono ormai incontrollabili e imprevedibili. Soprattutto non si riesce più a capire quali siano le variabili indipendenti e quali le dipendenti. Non siamo di fronte a una percezione dialettica della realtà, ma a un degrado della capacità di ascolto e a un disorientamento che ci porta a posizioni radicali o a incapacità di focalizzare i problemi, dal momento che, se in tutte le scelte “c’è una parte di buono”, sembra talvolta che “il buono” sia da una parte sola. Ciò che disorienta è che, se in qualche settore o su qualche tema siamo disposti a trovare un accordo, subito ne scaturisce un altro sul quale “non è possibile cedere”.
Queste sono le conseguenze della frammentazione culturale e della pedagogia dell’improvvisazione, alle quali sono state sottoposte dal 1968 in poi almeno due generazioni di Italiani, i quali adesso, presi nel loro insieme, non vedono altra possibilità politica se non un governo di coalizione affidato a un tecnico (e non è la prima volta che si preferisca un tecnico a tanti politici…), ma individualmente interpellati pensano che si dovrebbe andare a elezioni perché “ormai di questi xxxx” non se ne può più” dove le xxxx rappresentano le caselle in cui ognuno mette il nome di qualcun altro che ritiene responsabile della crisi che stiamo vivendo.
Io non credo che sia possibile risolvere questa situazione in breve tempo. Tuttavia se non si comincia a lavorare in alcuni settori ben precisi, il primo dei quali è la scuola, io credo che il futuro democratico del Paese sia fortemente a rischio, perché prima o poi i conflitti (anche generazionali) esploderanno e le tensioni non si risaneranno con piani economici o supporti finanziari. Per superare in modo maturo queste crisi sono necessari senso critico, cultura dell’analisi e capacità di non stancarsi di fronte alla complessità. Ecco in sintesi quello che possiamo definire cultura classica, nel senso più dinamico e aperto del termine. Purtroppo, forse anche per qualche limite di noi docenti (alimentato peraltro anche dalla formazione universitaria), è andata affermandosi l’idea che la cultura classica coincida con una “erudizione” fuori del tempo e priva di connessioni con la realtà. In realtà (e lo ripeto consapevole della ridondanza) l’analisi grammaticale e l’analisi logica, la memorizzazione dei dati, l’apprendimento severo e privo di “malinconie”, l’esercizio della scrittura e della ri-scrittura, la fatica della traduzione, sono tutti percorsi educativi che costruiscono nel cuore e nella mente degli allievi l’idea di non sapere e di doversi sempre misurare con grande cura di fronte ai dati, perché le cose difficili richiedono umiltà, rigore, ascolto e disponibilità a comprendere. Il latino, e ancor più il greco, sono muraglie che esigono, per essere scalate, strumenti adeguati e preparati con cura, capacità di resistere alla fatica e spirito di sfida. In altre parole: tutto il contrario di una cultura della semplificazione, della facilitazione e dell’illusoria convinzione di sapere, per il fatto di aver “orecchiato” qualche soluzione in internet o assistito a qualche urlato talk show in TV.
La percezione dialettica della realtà e la cultura dell’ascolto sono le sole vie attraverso le quali può nascere anche una scelta di mediazione. Ma qui sta il nodo: chi ha preparazione superficiale e sbrigativa chiamerà compromesso la mediazione raggiunta con fatica e lavoro di cesello; chiamerà attaccamento al potere la scelta di non abbandonare la nave nella tempesta; guarderà con sospetto alle competenze scientifiche e tecnologiche valutate con ponderazione nelle loro conseguenze politiche e amministrative, nella convinzione di essere ingannato con il latinorum dei “professoroni”.
Dalla cultura del sospetto, dalla fragilità culturale, dall’incapacità di comprendere la complessità nascono la superfetazione legislativa che soffoca la vita civile, l’eccesso di normativa amministrativa capace di produrre solo rigidità burocratica, l’intasamento degli spazi di discrezionalità con prescrizioni liturgiche ossessive, che nessuno seguirà se non in modo puramente formale e non per agire bene, ma solo per evitare contenzioso.
Orbene: lungi da me l’idea che si possa “ritornare a fare scuola come una volta”. La storia non prevede il tasto rewind. Pensare di ripristinare comportamenti del passato è una forma di “approccio riduzionista” che complica le cose invece di risolverle. La sfida è quella di ritrovare una organizzazione scolastica e forme di graduale educazione alla complessità per i ragazzi del XXI secolo, lavorando sull’orientamento e sul valore orientativo delle discipline, finendola una volta per tutte con la contrapposizione fra istruzione e cultura da un alto e applicazione e lavoro dall’altro.
La cultura scolastica non è alternativa a quella del mondo reale. Ne è il fondamento, il presupposto; direi perfino l’innesco. L’analisi grammaticale crea l’abitudine a leggere con cura i testi. L’analisi logica obbliga a comprendere la struttura della lingua. La traduzione costringe a misurarsi con il “totalmente altro da sé”, lontano nel tempo e quindi tale da sembrare incomprensibile. La consapevolezza che si possono commettere errori, anche gravi, porta al senso di responsabilità. Potrà sembrare strano che lo studio severo e approfondito dell’italiano, del latino (e del greco), delle lingue straniere, apra le vie anche della dimensione scientifica. Ma chi sa di scuola veramente, chi sa di scienza approfonditamente, sa bene quale sia il valore della costruzione interiore delle capacità di analisi, senza le quali non si va alla sintesi. Tutto questo però perde ogni efficacia se non si sanno applicare le corrette gradualità e le opportune distinzioni. È evidente che non si possono insegnare il latino e il greco negli istituti tecnici e professionali, ma non si può ignorare che anche i ragazzi che frequentano quei percorsi scolastici, in misura enormemente maggiore che in passato, hanno bisogno di sviluppare capacità critica, autonomia di pensiero e soprattutto dimensione etica delle competenze. Ma qui si aprono altri orizzonti, sui quali comunque ritorneremo.
Nella Knowledge Society il sapere produce ricchezza, ma un sapere che non si misura coi i fatti non è significativo. E soprattutto un sapere che non costruisce capacità critica è inutile e dannoso. Sono anni che sappiamo, che diciamo questo, ma sono anni che intasiamo i ragazzi di dati, perché siamo preoccupati della valutazione dei docenti che verranno dopo di noi. Il risultato è che siamo tutti malcontenti: i docenti perché constatano che la scuola non è efficace; i genitori perché vedono che i figli fanno fatiche immani e non ottengono sempre i desiderati successi; i ragazzi perché si domandano continuamente che senso abbia quello che stanno facendo.
Di fronte alla complessità solo una adeguata organizzazione dell’istruzione potrà esserci d’aiuto. Ma da sola la scuola non potrà fare nulla, sono necessarie alleanze forti. Quelle che generano la pedagogia dei territori. Creare contesti di dialogo e confronto fra scuola e mondo del lavoro, della cultura, della produzione non ha solo il valore di una esercitazione occasionale, è la sola via stabile e strutturale per uscire dalla crisi.
Non ci riusciremo subito. Cinquant’anni di cicale non si risanano in un anno di lavoro di pur brave formiche.