“Mulholland Drive”: una domanda senza tempo
David Lynch torna nelle sale con la versione restaurata di una pellicola che sfugge ai contorni di una precisa etichetta di genere, ignorando volutamente ogni tipo di canone narrativo e di messa in scena.
David Lynch torna nelle sale con la versione restaurata di una pellicola che sfugge ai contorni di una precisa etichetta di genere, ignorando volutamente ogni tipo di canone narrativo e di messa in scena.
Grazie all’operato della Cineteca di Bologna, Mulholland Drive torna al cinema in versione restaurata, dal 15 al 17 novembre.
La cosa non desta certo meraviglia: il pubblico e i critici sono pressoché universalmente d’accordo nell’affermare che si tratta di uno dei film più importanti della storia del cinema, tanto da essere stato inserito, da un sondaggio promosso dal British Film Institute, al 28esimo posto nella classifica dei film migliori di sempre.
Mulholland Drive, diventato nel frattempo un vero e proprio cult, torna così a risvegliare tutti gli interrogativi che aveva suscitato all’uscita nelle sale nell’ormai lontano 2001.
Categorizzato come thriller psicologico, noir o film drammatico, una delle tante qualità atemporali di questa pellicola è proprio quella di sfuggire ai contorni di una precisa etichetta di genere, ignorando volutamente ogni tipo di canone narrativo e di messa in scena.
La prima parte del film, in effetti, procede con un andamento relativamente semplice e lineare: una donna (interpretata da Laura Harring), scampata ad un tentativo di omicidio e unica sopravvissuta di un incidente stradale che ha coinvolto la vettura dei suoi rapitori, si ritrova a vagare tra Mulholland Drive e le luci di una Los Angeles che incombe sullo sfondo scuro della notte con aria quasi minacciosa.
All’alba del giorno dopo l’incidente, ancora in stato confusionale, riesce ad introdursi di soppiatto in un appartamento e a trovare così rifugio. È qui che fa la conoscenza di Betty (Naomi Watts), giovane aspirante attrice arrivata proprio quel giorno dall’Ontario per perseguire i propri sogni nella capitale del cinema americano.
Il personaggio di Laura Harring, presentatasi inizialmente come Rita, ammette di aver perso la memoria: non ricorda più nulla se non vaghi frammenti che emergono confusi dalle pieghe della sua mente.
Non ricorda neppure il proprio nome: si presenta infatti come Rita solo dopo aver visto appeso nella stanza da bagno un poster del film Gilda con Rita Hayworth. Confusa e bisognosa di aiuto, trova conforto proprio in Betty, la quale si offre di aiutarla a ricostruire pezzo per pezzo la sua identità, seguendo i pochi indizi che hanno a disposizione.
I primi due terzi del film seguono il viaggio delle due ragazze attraverso il sole abbacinante di una Hollywood popolata da personaggi problematici, cowboy, assassini imbranati, registi sull’orlo del fallimento e misteriosi mafiosi che ne controllano l’operato, il tutto avvicinandosi sempre di più alla verità con cadenza tipica della narrazione Noir.
Le due donne si affezionano l’una all’altra sempre di più nel corso di questa ricerca, fino a che Betty non dichiara a Rita di essersi innamorata di lei, subito prima di fare l’amore.
È in questo momento che la struttura del film, la storia che si è finora dipanata relativamente lineare di fronte agli occhi degli spettatori collassa.
Rita ricorda nel sonno il nome di un Club e implora Betty di accompagnarla.
In una delle sequenze più celebri ed importanti del cinema di Lynch (ma anche del cinema contemporaneo in generale), le due si recano così al Club Silencio, un luogo misterioso simile a un teatro dove un presentatore dall’aria luciferina annuncia profeticamente “È tutto registrato. È tutto un nastro. È solo un’illusione”.
È durante la performance della cantante Rebekah del Rio che il meccanismo di realtà che fino a quel momento aveva retto l’universo diegetico crolla su se stesso, sia per quello che riguarda la storia, sia per quanto riguarda il coinvolgimento dello spettatore in essa.
La cantante sviene ma la sua voce continua a echeggiare – grazie al playback – tra i drappi rossi del palcoscenico.
La finzione è svelata, il vetro sottile che separa la realtà ed il sogno si incrina rivelandosi al pubblico: è solo un’illusione.
Betty si sveglia: il suo vero nome è in realtà Diane Selwyn, nome in cui le due ragazze si erano già imbattute nella prima parte del film.
Il mondo di Diane è profondamente diverso da quello di Betty: la sua carriera è stagnante, il suo amore per Rita (che nella realtà si chiama Camilla Rhodes ed è un’attrice di successo), non è corrisposto.
È un mondo di sofferenza, di paranoie e di visioni infernali. Un mondo che nella prima parte del film appare trasfigurato nei personaggi che le due donne incontrano, un mondo che sembra essere la versione irrealizzata di tutti i desideri di Diane, un mondo talmente opprimente, deludente, da portarla a compiere azioni terribili.
La prima parte del film non sembra essere altro che la tormentata fantasia di Diane/Betty afflitta dai sensi di colpa, infestata dal rimorso, bisognosa di trovare conforto in una realtà altra dove la sua amante Camilla/Rita è un personaggio passivo e bisognoso di lei, un mondo dove la sua carriera sembra essere avviata verso luminosi orizzonti, un mondo migliore.
Desideri e paure, realtà e fantasie, particolari inspiegati (tra cui il significato della scatola blu che compare nella scena del Club Silencio e che ancora tormenta i fan di Lynch) e domande che ancora, a distanza di vent’anni, non trovano risposte certe.
I teorici ed i cinefili, nel frattempo, si sono sprecati nel costruire spiegazioni plausibili: alcuni sostengono l’ipotesi del sogno, alcuni avallano teorie ancora più complesse tra cui quella dell’esistenza di due universi paralleli nel mondo del film. Vent’anni di disperata speculazione hanno portato a numerosissime risposte, nessuna universalmente condivisa.
La verità è che la risposta ce l’abbiamo già, ed è venuta da Lynch stesso.
Nel 2007, durante un’intervista rilasciata alla British Academy of Film and Television (BAFTA), interrogato sul significato di Mulholland Drive, il regista ha parlato di quale tortura sia cercare di tradurre un’idea sviluppata nella lingua del cinema in parole, rifiutandosi così di fornire la propria interpretazione del film, sostenendo che non avrebbe fatto altro che “togliere” alle interpretazioni che ognuno aveva già sviluppato da sé. Riguardo al significato della pellicola, ha affermato: “People still know inside what it is for them. It’s like life, you see sort of the same things but you come up with many, many different things as you go along as a detective.”
La risposta è che non esiste una risposta.
Il mistero del cinema (di Lynch, ma anche più in generale come forma d’arte) è il mistero della vita, che si manifesta ad ognuno in maniera differente ed assume tanti significati quante sono le persone che ne fanno esperienza.
Vent’anni dopo, possiamo allora tornare in sala a godere di uno dei più grandi capolavori della settima arte con serenità, lasciando che siano le immagini a parlare, senza imporci su di loro.
Coloro che invece hanno intenzione di recarsi al cinema a rivedere Mulholland Drive alla disperata ricerca di un significato, secondo Lynch, possono stare tranquilli: la risposta è già dentro di loro.
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