Argentina, anni ’70. Attualità del Peronismo in un mondo disorientato
In Argentina torna in auge il "peronismo". La memoria della dittatura, però, non può essere cancellata, anche perché in Italia se ne parla spesso a sproposito.
In Argentina torna in auge il "peronismo". La memoria della dittatura, però, non può essere cancellata, anche perché in Italia se ne parla spesso a sproposito.
24 marzo 1976. Tutto finì all’una di notte, quando il generale José Rogelio Villareal disse a Isabel Martínez de Perón: «Signora, le Forze armante hanno preso il controllo politico del Paese. Lei è in arresto». O meglio, tutto cominciava. L’Argentina al tempo viveva nel caos: economico, politico, sociale. Nei primi mesi del 1976 a Buenos Aires ogni cinque ore si commetteva un assassinio politico, ogni tre esplodeva una bomba. Alla morte di Perón, due anni prima, il fronte peronista si era diviso: alla Casa Rosada e ai dialoghi con la moglie, succedutagli al potere, molti preferirono tornare alla guerriglia di strada, alla resistenza clandestina. E gli operai scendevano di nuovo in piazza a protestare contro le politiche economiche del governo. Insomma, anni di inflazione, crisi sindacale, violenza e ingovernabilità. Ma ciò che cominciava con quella fatidica nottata sarebbe stato di gran lunga peggiore.
L’uomo che cercò – invano – un punto di equilibrio tra la destra e i radicali di sinistra. Lo slogan era “giustizia e libertà”, che andrebbe studiato meglio e forse tolto dalla catalogazione generica di populismo. Ridurre il “peronismo” a una mera versione sudamericana del fascismo significherebbe non rendere giustizia a una dottrina che, nel corso degli anni, ha potuto contare sul contributo d’intellettuali cattolici e marxisti e sull’appoggio della classe operaia e ha svolto un ruolo importantissimo nella nascita dell’idea di Terzo Mondo. Ecco perché il peronismo è invocato ai nostri giorni per cercare d’interpretare lo stile politico che caratterizza alcuni governi latinoamericani, primo fra tutti quello del venezuelano Hugo Chávez.
In un contesto economico complicato e con uno scenario politico meno trionfante di quanto loro stessi si aspettassero torna l’idea di “peronismo”. Ma il difficile viene proprio ora. E soprattutto alla luce del prestito da 57 miliardi di dollari del Fondo Monetario Internazionale che pesa come un macigno su un Paese che fatica a riprendersi dalla pandemia. Macri vinse promettendo il ritorno alla normalità; statistiche affidabili, lotta alla povertà, contenimento della spesa pubblica e dell’inflazione, la vera bestia nera della classe media. Il peronismo, a sua volta, si reinventa costantemente e ci sono molte incognite su come sarà adesso. C’è chi teme che Alberto Fernandez sia stato solo una specie di prestanome di Cristina Kirchner, in pura tradizione “Campora-Peron” del 1973, quando il generale non poteva partecipare alle elezioni e mandò avanti la sua staffetta. C’è chi pensa al più recente tandem Putin-Medveved del 2008, ipotizzando Cristina di nuovo al potere fra quattro anni. O chi, tra le fila del macrismo, si augura un’implosione del movimento già verso la metà del prossimo anno, sotto pressione della complicata congiuntura economica.
Il peronismo nacque il 17 ottobre 1945 in Plaza de Mayo. Ma oggi, nei giorni seguenti al “dia de la lealtad peronista” (17 ottobre) si mostra diviso. La speranza è quella di un ritorno alla compattezza che faccia leva sulle giovani promesse della politica argentina, come Daniela Pezzutti Sosa, figlia di Cristina Sosa, peronista di spicco di Buenos Aires.
Le parole sono dei macigni che al loro passaggio lasciano molto spesso conseguenze insanabili, scrive la poetessa Maria Bertuzzo. In questi giorni in Italia si parla spesso di governo dittatoriale e fascista, soprattutto per quanto riguarda la questione del “green pass”. I giovani accusano di fascismo le forze dell’ordine, incaricate di vigilare soprattutto sulle manifestazioni non autorizzate. Ebbene, un esempio illuminante ci può forse far cogliere, in tempi recenti, il significato della parola dittatura e far riflettere. ll prossimo 10 dicembre scadrà il 38esimo anniversario della fine di una delle dittature più sanguinose dell’epoca contemporanea. Quella vissuta proprio in Argentina dal 24 marzo 1976 al 10 dicembre 1983. Sette terribili anni, contraddistinti anche dai famigerati Mondiali del ‘78 che si svolsero proprio nel paese albiceleste, una droga data al mondo per nascondere quanto stava realmente avvenendo.
Processo di riorganizzazione nazionale (in spagnolo Proceso de Reorganización Nacional o semplicemente el Proceso)… “Il Processo” fu il nome con cui si autodefinì la dittatura civile-militare che governò l’Argentina, formalmente, attraverso la cessione incondizionata del potere a un governo costituzionale.
Il governo dichiarò che tutti i giovani tra i diciotto ei trent’anni potevano essere considerati sospetti di appartenere a gruppi terroristici. Essere uno studente, un operaio o membro di un sindacato significava perciò essere nel mirino degli apparati di repressione dello Stato. Quindi, anche se non frequentavi circoli progressisti o dichiaratamente anti-sistema, eri a rischio. A nulla valeva non avere motivazioni ideologiche o essere solo una studentessa modello che non si era mai preoccupata di politica. L’unico sbocco che la società trovò per sfuggire da quest’ambiente di oppressione erano le partite di calcio. La polizia non poteva ovviamente arrestare le migliaia di persone che affollavano gli stadi. Così, la gente approfittava dell’occasione per insultare il presidente e ai militari o cantare La Marcha Peronista. C’era invece altra gente, che non aveva paura delle torture o della morte. Las Madres y Abuelas de Plaza de Mayo, quasi le uniche persone che avevano il coraggio di scendere, a viso aperto, in piazza e protestare; qualificate dalla stampa come “vecchie pazze, mamme di assassini e terroristi, anti-argentine”.
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