“Io prevedo che i neuroni specchio diventeranno per la psicologia ciò che il DNA è stato per la biologia”. Queste le parole del noto neuroscienziato Vilayanur S. Ramachandran. In effetti la loro scoperta ha rivoluzionato il campo delle neuroscienze, della psicologia e non solo.

Giacomo Rizzolatti è un neuroscienziato italiano. Ha contribuito, insieme ai suoi collaboratori, alla scoperta dei neuroni un po’ particolari: i “neuroni specchio”. Questa scoperta negli anni ha avuto numerose risonanze in diversi ambiti della medicina e della psicologia. È Professore di Fisiologia umana e Direttore dell’omonimo Dipartimento dell’Università di Parma.   

Professore, possiamo dire che questi neuroni sono sia “motori” sia “visivi”?

«Si, e soprattutto rispondono selettivamente allo scopo dell’azione. Quando io vedo uno che afferra una tazzina non faccio un ragionamento; dentro di me ho un programma  motorio “pigliare una tazzina”. Capisco “afferrare” e trasformo una rappresentazione sensoriale (vedere) in una motoria. Questo è molto interessante perché se si conosce una certa azione si capisce cosa sta facendo chi si sta osservando, mentre non lo si capisce se non si ha quel programma motorio. E se c’è un modello interno, ci si rende conto se quello che fa l’altro è corretto o no.  Per esempio se io gioco a calcio, quando guardo una partita so capire se le azioni sportive dei calciatori sono corrette o se, per esempio, il portiere ha fatto una gran parata dal punto di vista tecnico. Mentre se non gioco a calcio lo capisco solo in parte. Quindi capisco il calcio se gioco a calcio, oppure un balletto se sono un ballerino o capisco perché in una gara di tuffi un tuffatore prenda un punteggio di 7.5 mentre l’altro prende 8.00. Un giocatore di calcio o un ballerino o un tuffatore, quando guardano il proprio sport, hanno un’attività dei neuroni specchio per quelle azioni motorie, molto più grande di una persona che non pratica quegli sport. Il vantaggio del sistema specchio è che capiamo direttamente senza bisogno di fare un ragionamento o perché ce lo hanno insegnato.»

Avete poi scoperto che anche l’empatia e le emozioni funzionano in questo modo…

«Per comprendere gli altri abbiamo bisogno di un modello  “interno”. L’empatia è quando tu ed io siamo nello stesso stato, non quando io ti voglio bene e tu vuoi bene a me.  Quando tu hai dolore io sento dolore mediante un meccanismo “mirror”, un sistema immediato di riconoscimento che non si avvale di un ragionamento. L’empatia è il momento in cui io e te siamo nello stesso stato (che, sia chiaro, non è identico perché il mio dolore non è il tuo dolore ma sono stati simili). Si tratta di un meccanismo innato, che non viene appreso. Il bambino alla nascita riconosce in modo innato quando la mamma ride. Più in generale tutto il sistema “emozionale” non è appreso.»  

In generale tutte le emozioni sono una preparazione a fare qualcosa, ad agire. Ma da cosa dipende il cosa succederà dopo che ho provato una data emozione?

«Le emozioni hanno un doppio aspetto: uno interno (un viscerale “sento dolore”) e uno motorio. Se vedo uno che ride mi si attiva il centro del riso. In quel momento siamo tutti e due nello stesso stato. Cosa succederà dopo dipende dalla singola persona. In genere se un individuo vede uno che soffre cerca di aiutarlo ma non è detto. Per esempio, un poliziotto che  cerca di disperdere la folla usando le maniere forti, vede che le persone colpite provano dolore ma non si ferma e continua con la sua azione. Il chirurgo che opera vede sangue ma non si ferma per consolare.  Abbiamo un meccanismo di freno delle emozioni, su cui ancora non sappiamo molto. Certo però che il fatto di essere  nello stesso stato è fondamentale per comprendere meglio i comportamenti e le interazioni tra le persone.»  

Questo perché siamo nati per le emozioni…

«Si, siamo nati per le emozioni, proprio per questo tipo di interazione innata volta alla sopravvivenza fisica, emotiva e quindi psicologica. Infatti quando durante le prime fasi di vita qualcosa non va per il verso giusto, dal punto di vista neuropsicologico i bambini possono crescere con qualche difficoltà, fino a sviluppare veri e propri disturbi psichici. Sembrerebbe, per esempio, che alla base di alcune forme di autismo ci sia una  carenza di “neuroni specchio”. Anche se io su questo non sono d’accordo. L’autismo è talmente variegato… è ancora oggi un grande enigma per la medicina. Lo capiamo concettualmente ma probabilmente si tratta di lesioni diverse del cervello. Ecco perché si parla di spettro autistico.»  

Penso che  anche nella relazione insegnante-alunno, sia importante l’aspetto emozionale, e penso che il vero insegnamento non possa essere solo nozionistico. Come ha vissuto , da docente universitario, questo ultimo anno in cui l’insegnamento è stato svolto “a distanza”?

«L’apprendimento avviene molto bene se c’è una compartecipazione  emotiva. L’insegnante bravo non è quello  che sa a memoria Dante Alighieri ma è quello che sa spiegare e fa vivere il perché Dante sia bello, mettendoci delle emozioni. Gli insegnanti devono essere empatici con i propri allievi; se non c’è condivisione di interesse, di entusiasmo, le nozioni cadono. Nel periodo delle lezioni online per me è stato molto difficile fare lezioni perché non vedevo e non sentivo risposta dall’altra parte. Quando faccio lezioni universitarie, cerco di attrarre l’attenzione in  modo che tutti siano attenti e partecipino. Se invece parlassi e basta, magari leggendo la lezione, gli studenti non starebbero attenti. Trasmettere  gli  aspetti emozionali via web è difficile. Per la parte motorio va ancora bene, ma tutto il resto si impara molto meglio “in presenza”.»

Immagino che si riferisca all’ utilizzo del web in ambito motorio-riabilitativo; in che modo si può contribuire a questo processo?

«Se per esempio si rompe una gamba,  dopo che l’hanno ingessata, impara una camminata zoppa. Poi le tolgono il gesso e pensa: “Ora camminerò bene come prima“. E invece no. Continua a camminare per un periodo con il nuovo programma motorio, che ha appreso con il gesso e per un po’ continua a saltellare e camminare male. Deve perciò andare a fare una riabilitazione che spesso dura un mese, un mese e mezzo per recuperare la camminata precedente all’incidente. Se però, all’interno di un programma riabilitativo specifico, le fanno vedere, attraverso dei filmati, come camminava prima, oppure le fanno vedere alcuni video in cui altre persone camminano normalmente, il camminare “giusto”, fa si che il suo programma motorio pregresso, quello che ha imparato da bambino, ritorni. La logica è questa: il programma motorio c’è, bisogna riattivarlo e rafforzarlo. Vedendo il modo corretto di camminare il sistema “mirror” fa sì che il sistema motorio disabituato riprenda le sue funzioni. Gli ortopedici sono molto felici di questa scoperta, perché quello che era un periodo di riabilitazione di un mese oggi si è accorciato a una settimana.»

Questo vale anche per lo “stroke”, l’ infarto cerebrale?

«Sì, perché in questo caso, non è che tutti i neuroni muoiano. Ci sono neuroni motori che se vengono rinforzati in fase riabilitativa attraverso il sistema visivo, si riattivano e così viene ripristinata l’attività motoria. Da qui le applicazioni diventano molteplici: dal Parkinson alla  sclerosi multipla. Una cura che si sta diffondendo sempre di più soprattutto ora con le nuove tecnologie in realtà virtuale.»

Se posso riabilitare dal punto di vista motorio, posso farlo anche dal punto di vista emotivo? Sto pensando ai narcisisti!

«Ma secondo lei un vero narcisista accetta di venire in terapia?»

No, in effetti lui sta bene dov’è.

Giacomo Rizzolatti è stato eletto Foreign Member della britannica Royal Society, fra le più prestigiose accademie scientifiche del mondo. Finora questo riconoscimento era stato assegnato solo a quattro italiani. Socio dell’Accademia Nazionale dei Lincei, Rizzolatti è Nato a Kiev il 28 aprile 1937 da una famiglia di origini italiane, si è laureato in Medicina all’Università di Padova nel 1961, dove si è specializato in Neurologia. Dopo aver lavorato per tre anni nell’Istituto di Fisiologia dell’Università di Pisa, nel 1967 si è trasferito nell’Università di Parma, dove ha lavorato inizialmente come assistente e dove poi è diventato ordinario di Fisiologia; dal 2002 dirige il Dipartimento di Neuroscienze della stessa università. Insignito di numerosi riconoscimenti, tra cui il premio Feltrinelli dell’Accademia dei Lincei (1999), il premio Herlitzka dell’Accademia delle scienze di Torino (2005), il Grawemeyer award della University of Luisville (2007), il premio J.L. Signoret della Fondazione IPSEN (2010), il premio Principe delle Asturie (2011) e il Brain Prize (2014).

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