Ci saranno due proiezioni nei cinema di Verona per Io resto, il documentario realizzato da Michele Aiello, classe 1987, con cui ha cercato di raccontare la realtà del primo lockdown dalle corsie dell’ospedale di Brescia. Appuntamento giovedì 21 ottobre alla 75° stagione del Circolo del Cinema di Verona presso il cinema Kappadue, (tre proiezioni alle 16.30, 19 e 21.30, all’ultima sarà presente in sala l’autore) e venerdì 22 ottobre al Cinema Pindemonte, alle 21.15, sempre con Aiello presente per uno scambio con gli spettatori.

Il documentario Io resto aderisce alla campagna #SoloAlCinema ed è distribuito da ZaLab, un laboratorio culturale che opera per la produzione e distribuzione di cinema indipendente e sociale. Il collettivo è formato, oltre ad Aiello, da filmmaker e operatori sociali: Matteo Calore, Davide Crudetti, Stefano Collizzolli, Andrea Segre, Sara Zavarise. In vista delle proiezioni del suo film a Verona, abbiamo dialogato con il regista per conoscere più da vicino come sta proseguendo la diffusione del documentario nelle sale, dato che la prima proiezione risale allo scorso 23 settembre e, attualmente, segue un calendario che proseguirà fino al 31 ottobre, sempre nel bresciano.

Michele, la distribuzione è il momento in cui il film incontra lo spettatore. Come ci si sente in questa fase delicata?

«Bene, anche se un po’ stanco. Far girare il film è una battaglia. Stiamo lavorando città per città.»

La locandina del film Io resto, distribuito dal laboratorio culturale Zalab.

È una distribuzione gestita interamente dal collettivo ZaLab?

«Sì, è l’unica modalità possibile per distribuire film che non hanno grossi budget. Al di sotto di certe cifre, i distributori non si interessano nemmeno al film che così non può raggiungere i multisala. Può capitare, però, che qualche multisala sia comunque interessato al film e decida di metterlo in programmazione. Il problema però è che per far arrivare pubblico ad un titolo indipendente bisogna promuoverlo con campagne pubblicitarie, che a loro volta non sono sostenibili senza un grande budget… insomma, un cane che si morde la coda. Noi di ZaLab facciamo la cosiddetta distribuzione civile: ci interfacciamo con le comunità interessate a mostrare il film e queste creano passaparola. Da anni il nostro collettivo si concentra sul tema della migrazione. Il tessuto sociale che se ne occupa è molto esteso e ha infatti richiesto i nostri film per poter attivare dibattiti. Il meccanismo non può però limitarsi alla sala, deve contemplare anche luoghi dove la qualità della proiezione è per forza di cose inferiore, come biblioteche o sale comunali.»

Vista la tematica, avete creato contatti con il mondo sanitario per eventuali proiezioni?

«Sto contattando il mondo sanitario: gli ordini degli infermieri e dei medici, le aziende sanitarie locali, le università con corsi di medicina. Paradossalmente, è un ambito escluso dal racconto audiovisivo. Tutti ne parlano in termini numerici, statistici. Ma chi lo vive dall’interno ha poche occasioni di raccontarsi al di là di quei dati. Come ZaLab creiamo su tutti i titoli in uscita una rete di contatti, ma nel caso del mondo sanitario il lavoro è stato più tosto. Se negli ambienti legati alla migrazione la collaborazione era già avviata da tempo, con quelli sanitari abbiamo dovuto creare un rapporto di fiducia. All’inizio vi era persino il timore che il film fosse uguale a tutte le narrazioni che avevamo già visto sul Covid.»

Come sta interagendo lo spettatore col film? È una reazione che corrisponde alle aspettative?

«Io ero partito con un’idea molto semplice: volevo dare un volto e un nome ad un avvenimento raccontato solo attraverso i numeri. La storia narrata viene recepita in modo diverso da ciascuno spettatore a seconda del proprio vissuto personale. Le persone rimangono per il dibattito dopo il film anche per mezzora ed è interessante vedere come parlino da prospettive diverse. La mia percezione del film viene ampliata dalle loro testimonianze e questo può accadere solo grazie all’esperienza collettiva.»

Le nuove percezioni, alle volte, possono anche rivelarsi rimpianti. Sei pentito di aver fatto nel film qualcosa di non voluto, di non ricercato? Di sbagliato?

«Sì, qualsiasi cosa (ride). Questa è la mia seconda regia e proseguendo su questa strada il mio grado di consapevolezza sicuramente aumenterà. Ciò non toglie che le incertezze vi siano sempre. Quando sono riuscito ad accedere all’ospedale per le riprese, la situazione era diversa da come me l’aspettavo. Il lockdown era in atto da tre settimane e cominciava a fare i suoi effetti. In reparto si era creata quasi una sorta di routine che gestiva tempestivamente le emergenze. Questa cosa mi ha frustrato molto. Io e Luca Gennari – che ha curato sia il soggetto che la fotografia – ci bombardavamo di domande. Cosa filmiamo? Come diamo un arco narrativo al film? Sapevo di avere immagini potenti e di voler fare un lavoro corale, i miei riferimenti sono i lavori di Martina Parenti e Massimo D’Anolfi, ma ad un certo punto l’unica soluzione è stata il montaggio. È lì che mi sono rasserenato. E poi, ogni volta che faccio un film, voglio che i protagonisti lo vedano prima di chiudere il montaggio. Ricevere il loro consenso è un cosa che mi riempie di gioia, mi sgrava da una grande responsabilità.»

Michele Aiello e Luca Gennari

Quale rapporto si è venuto a creare fra la macchina da presa e gli operatori sanitari?

«Si è spesso portati a pensare che, dopo un po’ di tempo, il soggetto non faccia più caso all’operatore che lo segue con la macchina da presa, ma non è vero. La presenza di qualsiasi regista di documentario non è mai neutra. Il tentativo di nascondersi è errato, perché se così fosse verrebbe a mancare un punto di vista. Il regista deve saper sviluppare una relazione: tanto più sarà abile in questo, quanto più le persone si doneranno alla camera. Ad un certo punto queste possono chiederti di non seguirle, di non riprenderle in un momento delicato o di non entrare in un determinato spazio. È un po’ come un rapporto d’amicizia: alle volte si crea empatia, altre volte conflitti. Ma in alcune situazioni, la macchina può addirittura essere una compagna di viaggio con cui si condividono situazioni difficili.»

Se nel cinema di finzione il regista dirige l’interprete, dove sta invece la regia nel documentario?

«È una domanda difficile, non sono in grado di rispondere. Ma per quello che sto capendo, il regista è il garante delle relazioni. È la persona che immagina situazioni anche se queste non sono ancora accadute.»

Ti è capitato di intervenire dando direzioni a chi stavi filmando?

«No, questo non lo faccio. Al massimo cerco di inserirmi in un dialogo mentre lo sto filmando, sviluppandolo verso direzioni diverse. E lo faccio solo quando sento del potenziale per la narrazione. C’è una scena nel film in cui due sorelle dialogano, una scena molto intima che dopo dieci minuti si stava esaurendo. Per me era talmente intensa che ho chiesto loro di potersi dire più cose. Queste mie richieste gli hanno permesso di tirare fuori argomenti che magari, un giorno o l’altro, avrebbero comunque affrontato, ma che io non avrei potuto filmare. La regia è questo: il tuo intervento può favorire uno sviluppo che, nella realtà, potrebbe rimanere silente.»

Il regista Michele Aiello

E qual è il tuo rapporto con la regia?

«Sono sempre aperto a nuove cose. Non ho fatto una scuola di cinema, ho iniziato senza sapere cosa fosse la regia e la sto scoprendo strada facendo. Sono partito col reportage giornalistico, di carattere informativo, ma ho sempre cercato di inserire qualcosa di visivo che avesse significato rispetto alla narrazione, dai paesaggi ai primi piani. Con questo film mi sono avvicinato a qualcosa che sicuramente sento più mio, ma so di dover fare altri film per capire meglio dove sto andando. Ma comunque, ho riscontrato una certa coerenza coi miei lavori precedenti. In fondo, uno deve trovare il proprio stile facendo.»

Le proiezioni proseguono, ma continua anche il percorso nel circuito festivaliero…

«L’altra settimana Io resto ha preso una menzione speciale al Perugia Social Film Festival. A novembre saremo invece in concorso al Documentaria di Palermo. Poi proveremo anche con altri festival in giro per il mondo. L’anteprima mondiale è stata fatta in Svizzera, a Visions du Réel. Il fatto che un festival internazionale abbia accolto positivamente il film mi ha fatto capire che esso ha un potenziale che evade le barriere nazionali. Sarebbe bello avere qualche altra esperienza all’estero per confermarne l’internazionalità.»

Questa settimana sarai a Verona. Che cosa significa, per un veronese, proiettare nella propria città?

«Se vado in una qualsiasi città a me sconosciuta e il film non piace, pazienza: me ne vado e chi s’è visto s’è visto (ride). Ma quando proietti nella tua città, i tuoi amici e le tue conoscenze sono parte del pubblico. Sapere che loro saranno presenti alla proiezione è una dimostrazione di affetto e questo dà al tutto un’emozione in più.»

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