Il ritiro delle truppe americane dall’Afghanistan ha sollevato molte critiche a livello internazionale per la grave crisi che ne è conseguita e per tempi e modalità che sono apparsi ai più come erratici e frettolosi. Il presidente Joe Biden si è trovato sotto lo scrutinio mondiale per una decisione che, agli osservatori più attenti, sembra solo la logica conseguenza di quanto stabilito anni prima.

Biden ha in effetti completato il ritiro delle truppe dal Paese che era stato iniziato da Obama e proseguito da Trump, la cui amministrazione ha firmato il famigerato (ora, al tempo fu osannato) accordo di Doha con i Taliban. Così come i predecessori avevano mantenuto operativi gli strumenti contro il terrorismo (basi per i droni, intelligence, forze speciali), anche l’attuale presidente ha tentato di separare le due questioni, ribadendo più volte che la lotta al terrorismo non è finita, seppur senza forze sul campo. Biden si trova a pagare lo scotto di un processo iniziato molti anni fa, figlio di un cambiamento radicale nella concezione di guerra da parte americana, che riteniamo vada analizzato per meglio comprendere il presente.

L’attentato alle Torri Gemelle e la reazione di George Bush jr

Impossibile partire da un momento diverso, vero elemento pivotale della storia contemporanea. Con gli attacchi dell’11 settembre 2001 l’America scopre un nuovo nemico: Osama bin Laden, lo sceicco legato al fondamentalismo islamico, creatore della cellula terroristica di al-Qaeda e finanziato dagli stessi miliardari sauditi che tanti interessi economici avevano negli Stati Uniti. La reazione ferale e istintiva di invadere l’Afghanistan viene accompagnata da grande appoggio politico e popolare, sembra a tutti la giusta rivincita contro chi aveva osato tanto. Girano t-shirt con la scritta “Kill ‘em all and let God sort ‘em out”, un invito a massacrarli tutti e lasciare alla divinità la scelta tra buoni e cattivi. Miliardi di dollari e migliaia di uomini vengono dedicati alla missione contro il terrore talebano in Afghanistan, solo per scoprire che bin Laden stava al sicuro, fino all’ultimo dei suoi giorni, in Pakistan. Dettagli trascurabili nella grande mappa della storia.

Obama, il pacifista

Barak Obama, nella sua magica campagna elettorale del 2008, si presenta come il candidato contro la guerra cruenta intrapresa da George W. Bush. In realtà, continua il processo da lui iniziato, con la furbizia di proporre una forma umanizzata di combattimento, che la rende più accettabile dalla popolazione. Il concetto di guerra negli Stati Uniti cambia, diventa mirato a bersagli selezionati, si sviluppa intorno alla tecnologia satellitare e fiorisce con l’uso dei droni.

Mai più vittime americane per “salvare” i popoli stranieri dal giogo della tirannia, una guerra senza vittime di parte. Obama vende agli americani l’idea di una guerra umana, per quanto contraddittori appaiano i termini. Una forma di combattimento precisa, senza danni collaterali e dove solo i cattivi muoiono. Ehm, diciamo quasi.

Il processo di trasformazione inizia da subito, fin dal marzo 2009, con la nota dei legali istituzionali in cui si parlata di “nessun limite geografico nella lotta al terrorismo”. Questa terribile frase, i cui effetti si vedono ancora oggi, viene circondata e forse sommersa da numerose ottime intenzioni, quali regole certe per i processi ai prigionieri, il divieto di ogni forma di tortura, che valgono addirittura al presidente il premio Nobel per la Pace. Proprio mentre si accinge a stiracchiare tutte le norme internazionali in tema di aggressione armata. 

Durante il suo discordo a Oslo, Obama accenna a “i nuovi modi in cui il terrorismo ci deve far ripensare i concetti di guerra giusta” in un mondo dove tutti ingenuamente pretendono la pace. Come accaduto dopo la seconda guerra mondiale, quando gli Usa costruirono le normative e le organizzazioni per ridurre i conflitti, Barak si dice “convinto che dobbiamo restare l’esempio da seguire nella condotta della guerra”. Nel discorso la parola “pace” è quasi in secondo piano, come se il presidente fosse sicuro che la guerra umana e la pace siano sinonimi.

La guerra umana e altri ossimori statunitensi

Attraverso una serie di strutture legali, l’amministrazione Obama cambia il concetto stesso di guerra, da invasione sul campo di durata certa o comunque limitata a quella che alcuni giornalisti Usa hanno definito la “guerra senza fine” per indicare che non ci sono più limiti geografici o temporali per un attacco mirato contro terroristi. L’opinione pubblica, tanto oltraggiata dalla strategia di Bush jr della “auto-difesa preventiva anche senza pericolo imminente”, insorge contro lo smantellamento di uno dei pilastri delle norme per la risoluzione dei conflitti internazionali. Nessuno però batte ciglio di fronte al documento che invoca la “prolungata imminenza” del pericolo, estendendo il concetto oltre il tempo e lo spazio

Basta meno di quel che si può pensare a finire nella lista nera americana: i legali riprendono il concetto amato da Bush delle “forze collegate” a una certa cellula terroristica e finiscono per ammettere l’attacco mirato a qualsiasi gruppo riferibile a certe dinamiche, nell’impossibilità di seguire in modo preciso tutte le trasformazioni e divisioni avvenute in al-Qaeda negli anni. L’hanno usato per giustificare le azioni contro al-Shabaab in Somalia, i cui legami con al-Qaeda non sono dimostrati.

I droni armati e i missili a lunga gittata (oltre ai mercenari dove necessario) sono la nuova guerra, distaccata e lontana dal sangue delle vittime. Alla fine del suo mandato, Obama li avrà usati 10 volte più di Bush, con diverse migliaia di morti e le operazioni del presidente pacifista arriveranno a coinvolgere ben 138 Paesi (il 70% del totale, per contesto) in tutto il mondo.

Si tratta di una guerra che funziona a livello mediatico perché si svolge sotto traccia, senza titoloni di giornale, e non causa vittime americane. Non ci sono nemmeno prigionieri nella guerra di precisione, quindi non si corrono rischi di maltrattarli durante la detenzione. 

E come biasimare l’opinione pubblica: non c’è gara tra le uccisioni mirate a soggetti verificati dal presidente stesso e uccisioni indiscriminate, anche tra i civili innocenti. Non c’è paragone tra i droni asettici e senza vittime americane, rispetto allo spettro ancora viso della guerra nel fango del Vietnam. 

I dubbi di Obama – la Presidential Policy Guidance (PPG)

L’impianto legale creato dal presidente Obama per rendere possibile la guerra infinita al terrore è uno strumento molto pericoloso, il cui utilizzo dipende largamente dalla “bontà d’animo” di chi lo tiene tra le mani. Come espresso dal giornalista Jeffrey Goldberg, grazie alla legalizzazione dei targeted killings, Obama è diventato «il più efficiente cacciatore di terroristi della storia, un presidente che lascerà al suo successore armi che farebbero l’invidia di un assassino professionista».

Barack Obama, accompagnato dal vice presidente Joe Biden (nella foto dietro al presidente), si rivolge ai media durante la sua prima visita al Pentagono da quando è diventato comandante in capo. Scattata il 28 gennaio 2009, la foto è di Chad J. McNeeley er il Dipartimento della Difesa,

Forse rendendosi conto del rischio insito nella liberalizzazione degli omicidi contro i terroristi, Obama rilascia il PPG, ovvero “indicazioni per la policy presidenziale”, mirato a contenere la discrezionalità di un presidente entro un codice morale e regole esplicite. Introduce il concetto di “impraticabilità della cattura” come condizione per l’attacco coi droni, così come la “quasi certezza” che nessuno a parte i terroristi siano coinvolti nell’attacco. Viene resa ufficiale la kill list, ovvero l’elenco degli obiettivi che il presidente si impegna ad approvare a cadenze regolari. Scritto nel 2012, forse solo perché la rielezione non appare scontata, viene reso pubblico solo due anni più tardi, per dare una patina di legalità a quelle che sono viste da molti come vere e proprie violazioni del diritto internazionale.

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