Continuiamo la riflessione sulla problematica dello sfruttamento lavorativo in Veneto, con il professore Devi Sacchetto.

Sacchetto è professore associato di Sociologia del Lavoro presso il Dipartimento di Filosofia, Sociologia, Pedagogia e Psicologia Applicata dell’Università di Padova e attualmente insegna Sociologia del Lavoro e Sociologia del lavoro e dei processi migratori. Ha inoltre pubblicato vari libri che si occupano della connessione tra processi migratori e organizzazione del lavoro.

Professore, veniamo subito al dunque: anche lei ha la percezione che in Veneto si parli di sfruttamento lavorativo solo in termini cronachistici che puntualmente vengono dimenticati il giorno dopo?

«Certamente. Ma si sa, come diceva il giornalista Luigi Pintor “I quotidiani si chiamano così perché durano un giorno e il giorno dopo servono a incartare le patate o a pulire i vetri.” In questi giorni tuttavia abbiamo sotto gli occhi il caso di Grafica Veneta che sembra andare in un’altra direzione, in quanto è seguito puntualmente da diversi quotidiani. Penso vi siano due motivi per questo: si tratta di una grande azienda che stampa volumi di persone molto note e che ha legami internazionali, inoltre il suo Presidente è una personalità pubblica. Di solito, la descrizione dello sfruttamento lavorativo così come è presentata nei giornali, dimentica che ci sono varie gradazioni di precarietà. Queste sfumature raramente vengono raccontate ed emergono solo le situazioni estreme, quando qualcuno si rivolge a un sindacato o succede un incidente sul lavoro. Quanto sale all’onore della cronaca sono quei casi particolarmente drammatici che scuotono la reazione emotiva perché moralmente inaccettabili in quanto considerati lesivi dei diritti umani. Oppure quei casi che coinvolgono grandi aziende e nomi importanti come Grafica Veneta oggi, o Fincantieri qualche tempo fa.

Scarsa o nulla è l’attenzione verso quelle situazioni in cui ci sono bassi salari, o contratti instabili. Diciamo che l’argomento della questione lavorativa non suscita particolare interesse. Ma non solo in Veneto, in tutta in Italia è così. Mi viene quasi da dire che negli ultimi trent’anni ci sia stato quasi un rifiuto verso questo argomento.»

C’è chi sostiene che in Veneto non si riesca a parlare di sfruttamento lavorativo come di un vero e proprio reato, perché è una realtà indistinta nelle pratiche e nelle relazioni del nostro territorio. È come se a livello culturale, vengano accettate delle modalità lavorative non del tutto legali, perché “comunque sia, è pur sempre un lavoro”. Considerando che il lavoro è una tessera importante nella costruzione dell’identità di un cittadino veneto. È d’accordo?

Prof. Devi Sacchetto, foto autorizzata

« Il Veneto negli ultimi quarant’anni ha subito una trasformazione importante e penso che la spinta al “lavoro a tutti i costi”, sia stata anche la risposta al problema dell’emigrazione degli anni Cinquanta e Sessanta. Pur di non dover affrontare le enormi difficoltà e le incognite di un percorso migratorio, i veneti si sono trovati ad accettare condizioni di lavoro molto dure.

A partire dagli anni Ottanta poi, l’imprenditoria e il lavoro indipendente sono stati ipervalorizzati. Sono stati messi in luce il successo e i traguardi economici, non tanto le fatiche e i sacrifici di chi era occupato in queste aziende. È da lì che è nato il mito del Veneto “locomotiva d’Italia”. Si sono puntati i riflettori sull’affermazione anche internazionale di molte aziende venete, senza fare luce sulle condizioni dei lavoratori che stavano dietro a quel prestigio.

Vitaliano Trevisan, scrittore e sceneggiatore vicentino, ha scritto un libro bellissimo, Works (Einaudi) in cui emerge in modo chiaro il sistema lavorativo in Veneto. Il lavoro viene raccontato come una condanna obbligata perché lamentarsi delle condizioni lavorative è visto come una malattia mentale, un segno di debolezza. La disoccupazione in una regione ad alta occupazione è un marchio che porta spesso a etichettare quella persona come scansafatiche. Mentre accogliere qualsiasi proposta, è un comportamento socialmente accettato. Anzi, direi, necessario per soddisfare le aspettative sociali. Siamo immersi in questa cultura, in questo modo di pensare. È chiaro quindi che sia molto difficile, dentro questa struttura di pensiero, distinguere quelle caratteristiche che rendono un lavoro precario e irregolare, un vero e proprio sfruttamento.»

Ma è ancora così? Le nuove generazioni sono ancora disposte ad accettare il lavoro ad ogni costo?

foto di Matteo Jorjoson, unsplash.com

«Effettivamente si stanno notando delle tensioni, iniziate già prima della pandemia. Si sta vedendo un aumento di giovani veneti che preferiscono espatriare. Per lo più sono laureati che pretendono un adeguato riconoscimento del loro titolo di studio. Un altro segnale è l’elevato turn over di lavoratori giovani. Ragazzi che passano da un lavoro all’altro, alla ricerca di opportunità migliori. Con dei costi emotivi e psicologici molto elevati. Altro indicatore è il numero di chi cerca di inserirsi nel lavoro pubblico dove a fronte di bassi salari si possono spuntare migliori condizioni di lavoro. Questi segnali ci dicono che forse, i giovani di oggi, non sono più tanto disposti ad accettare qualsiasi cosa venga loro proposta. E non si tratta solo degli italiani. Ed ecco un altro punto. Se andiamo oltre alla descrizione pietistica dei migranti sfruttati e maltrattati, si può vedere che anche i lavoratori stranieri, quando ne hanno la possibilità, si organizzano per chiedere condizioni lavorative migliori. Anche a costo di perdere il lavoro o di venire denunciati perché senza documenti in regola.»

Professore, perché secondo lei in Veneto non si riesce ad affrontare la questione del lavoro e dello sfruttamento, da un punto di vista politico?

«Ci sono vari motivi. Il primo è che il Veneto, comunque sia, è considerato una regione virtuosa a livello nazionale in cui l’economia tira. Proprio perché le aziende venete molto spesso hanno a che fare con clienti esteri, che pretendono tutta una serie di certificazioni, di norma devono essere attente ad alcuni aspetti tecnici che poi hanno ripercussioni sulle condizioni di lavoro. È una scelta orientata più dal sistema produttivo che da convinzioni strettamente etiche, ma è una realtà. In secondo luogo non si può negare che il Veneto è governato da una trentina d’anni da partiti politici che si sono occupati maggiormente della situazione imprenditoriale. Credo però che il tema del lavoro, dei contratti e dei salari, sia un tema trascurato a livello nazionale. Anche se in altre regioni ci può essere più attivismo e ci sono più progetti sociali a favore dei lavoratori sfruttati, a livello strutturale la situazione è continuata a peggiorare. A Foggia, per fare un esempio, regolarmente le baraccopoli dei lavoratori migranti vengono smantellate e ricostruite. Mentre sul piano contrattuale o delle condizioni lavorative, non è cambiato molto.

foto di Mihaly Koles, unsplash.com

Si continua a non affrontare il problema abitativo per esempio. Molto spesso i braccianti non si possono permettere di pagare un affitto. O altrettanto spesso nessuno è disposto ad affittare ai migranti. Qualche cooperativa poco trasparente e ormai anche qualche società a responsabilità limitata, o a responsabilità limitata semplificata, nascono facilmente per fornire manodopera alla bisogna alle aziende e nel magari si occupano anche di sistemarla in qualche appartamento o in situazioni abitative improvvisate. E credo che non sia un problema solo delle condizioni di lavoro nel settore privato perché anche nel settore pubblico vi sono appalti e subappalti nei quali le condizioni di lavoro non sempre sono monitorate e i salari possono essere molto bassi.»

Secondo lei cambierà qualcosa nel modo di affrontare la questione lavorativa, dopo il caso Grafica Veneta? O semplicemente sarà un altro episodio su cui tra un po’ si spegneranno i riflettori?

«Io non penso che episodi come questo possano modificare una tendenza generale che non riguarda né solo questa regione né solo l’Italia.

I processi di trasformazione dell’organizzazione del lavoro sono solitamente molto veloci. Ma i processi di trasformazione culturale invece, hanno tempi molto più lunghi. Qui abbiamo bisogno di un approccio diverso alla questione lavorativa che sia in grado di coinvolgere italiani e migranti.

Le faccio un esempio. Durante il lockdown ci siamo messi tutti a comprare su internet. Il mercato del lavoro si è adeguato all’istante e si è moltiplicato il numero di corrieri che consegnavano le merci. Quanti di noi si sono chiesti in che condizioni lavorassero queste persone che spesso erano migranti? Eccolo il nocciolo. Come consumatori siamo più attenti alla qualità del prodotto e al suo costo che a come esso venga realizzato. Abbiamo una visione individualista sia del commercio sia del lavoro, quando invece si tratta di fenomeni collettivi in cui siamo tutti immersi. Certo, è impossibile chiedersi, per ogni cosa che acquistiamo, da dove provenga e chi l’abbia realizzata. Ma non chiederselo mai, è parte del problema. Fino a che non cambiamo il modo di guardare al lavoro, a questa parte così ancora predominante della nostra vita, non cambierà il modo di affrontare i problemi ad esso collegati.»

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