Tokyo 2020: oltre il “miracolo sportivo” italiano
Una spedizione azzurra da record, ma che non deve distogliere l'attenzione dalla situazione in cui versa lo sport di base.
Una spedizione azzurra da record, ma che non deve distogliere l'attenzione dalla situazione in cui versa lo sport di base.
Domenica 1 agosto 2021. Sono le 14.50 circa, ora italiana, a Tokyo è già sera e le luci dello Stadio Nazionale illuminano il quartiere di Shinjuku. È questo il momento. Iniziano da qui i sette (più uno) giorni che hanno cambiato per sempre la storia olimpica italiana.
L’immagine l’abbiamo vista tutti. Gianmarco Tamberi e Mutaz Barshim davanti al commissario di gara decidono di condividere la medaglia d’oro. Gli abbracci, le urla e la gioia incontenibile. È il tappo dello spumante che salta e da lì sono festa, giubilo e vino buono.
Il primo calice offerto dagli azzurri è il più dolce, nettare degli dei sportivi, sapori che mai avremmo pensato di gustare. Marcell Jacobs in 9.80 scrive la storia davanti ai nostri occhi e succede a Bolt nell’empireo dei 100 metri piani olimpici. L’uomo più veloce del mondo è italiano. Roba che nemmeno Mandrake a Tor di Valle c’avrebbe messo mille lire.
I giorni successivi, poi, sono una sinfonia di acuti, medaglie, storie e traguardi dorati. La vela col duo Tita – Banti, il karate con l’Orso di Avola Luigi Busà, la doppietta nella 20 km di marcia con Massimo Stano e Antonella Palmisano, Ganna e tutta la squadra del ciclismo su pista. Fino all’impresa finale. Una 4×100 che brucia per un centesimo la Gran Bretagna e Filippo Tortu che, in quegli istanti, rivive sulla propria pelle l’epica rimonta di Mennea su Wells a Mosca 1980. E ho citato solo le medaglie d’oro, ma in sette giorni abbiamo raccolto molto altro. Assurdo.
Forse è proprio questo il termine esatto per definire la seconda settimana di queste Olimpiadi giapponesi. Assurda. Giornate dove la polvere di stelle scende su di te e anche I sogni più proibiti, di colpo, si realizzano. Se ci davano altri cinque o sei giorni roba che risistemiamo anche il debito pubblico. Tanto ormai.
Bene, cinque paragrafi di giusto tributo ai grandi risultati degli ultimi giorni possono bastare. Ora mi fermo un attimo ad analizzare su cos’altro ci ha lasciato questa XXXII Olimpiade.
Un’edizione senza un mattatore assoluto, senza cioè quella cometa in grado di oscurare atleti e discipline a suon di medaglie e record. Nessun Phelps e nessun Bolt hanno attraversato il cielo di Tokyo. Solo qualche scintillio qua e là. Kevin Durant che dimostra a tutti che la pallacanestro è uno sport meraviglioso, ma che lui gioca a qualcos’altro. I record quasi irreali di McLaughlin e Warholm nei 400 ostacoli. La quattordicenne Hongchan Quan che vola dalla piattaforma da 10 metri e rinverdisce I fasti di Fu Mingxia. Senza dimenticare Emma McKeon, prima donna a conquistare 7 medaglie in una singola edizione dei Giochi.
Ci portiamo a casa piccole e grandi storie di sport e umanità. Che sono poi il lascito più bello di ogni Olimpiade. I sacrifici della madre di Fausto Desalu, Tom Daley che racconta il passato di bullismo e il lottatore russo Artur Naifonov, che a sette anni rimane in ostaggio per tre giorni durante la strage della scuola di Beslan, perdendo la madre, ed a Tokyo conquista la medaglia di bronzo.
Ma, tornando all’italico stivale, al di là dei festeggiamenti e dei trionfalismi dell’ultima ora, cosa ci hanno raccontato gli ultimi giorni?
Il rosicamento degli inglesi e degli americani dopo le sconfitte sulla velocità sono praticamente una tassa da pagare quando ti presenti per la prima volta sul palcoscenico più ambito e ti porti pure a casa il malloppone. Per questo ho seguito con gusto le spiegazioni tecniche sulla composizione delle nuove scarpe e anche sull’innovativa pista di atletica, argomenti che neppure io mai avrei approfondito senza gli input di questa settimana.
Ovviamente pure le polemiche interne (nostra disciplina olimpica, dicono) non potevano mancare. Tra le più divertenti, ad esempio, le macchiettistiche uscite del SuperMario Nazionale. No, non Draghi. Il buon Adinolfi che, dopo le puerili argomentazioni sui mancati meriti di Paola Egonu come portabandiera olimpica, è riuscito a scalzare Fassino dal ruolo di peggior Nostradamus del web. A pensarci bene, in effetti, forse lo sliding doors non è stato l’oro di Tamberi, ma il tweet di Mario di cinque ore prima.
Nonostante il peggior tempismo della storia social-sportiva italiana, però, la polemicuccia di Adinolfi dovrebbe comunque farci approfondire la questione relativa alla gestione dello sport nel nostro Paese.
Tralasciamo per un attimo gli attacchi a Malagò. Che il presidente del CONI sia un politico navigato non lo scopriamo oggi, carriera e scelte passate e presenti parlano da sole. Ma se torni a casa col record storico di medaglie olimpiche e, tra di esse, alcune dal peso specifico tremendamente più elevato, non esiste frecciatina in grado di scalfire la tua corazza. E ti puoi permettere anche di toglierti qualche bel sasso dalle scarpe.
Sono però certo che anche Malagò, in cuor suo, concorda col pensiero di tantissimi sportivi, allenatori e atleti. Quello a cui abbiamo assistito la scorsa settimana è quanto di più vicino possibile ci sia al concetto di “miracolo sportivo”. Non tanto per gli straordinari risultati nell’atletica, ma proprio analizzando la situazione in cui versa lo sport di base.
Il tema delle strutture, ad esempio, che accomuna il grande calcio alle piste di atletica sparse per le nostre provincie. Una riforma del lavoro sportivo prorogata a data da destinarsi e che poteva, invece, mettere un primo sassolino per tutelare chi insegna a correre, nuotare e tirare di schermi ai nostri figli. Una gestione delle federazioni sempre più simile ad una lista di partito, anche.
Finendo poi con il “valore sociale” che vogliamo attribuire allo sport. E qui c’è bisogno di due cose: chiarezza e investimenti. Opzione 1: lo inseriamo in maniera radicata e capillare nel sistema educativo nazionale, dandogli finalmente la dignità che si merita e sostenendolo con risorse adeguate. Oppure, opzione 2: andiamo avanti così, tra pressapochismo e buona sorte, confidando nella passione (troppo spesso gratuita) di atleti e allenatori.
In Italia siamo medaglia d’oro ad honorem nel cullarci sugli allori e nel nascondere lo sporco sotto il tappeto. E finché ci sono i Jacobs a far scattare i lampi dei flash, il giochino funziona. Ma, fuori dal cono di luce, la situazione non è tutta rose e fiori. Basta chiedere ad una delle migliaia di società sportive sparse per il Paese che, tra un’ondata e l’altra della pandemia da Covid, devono far quadrare i conti con sponsorizzazioni private sempre più esigue.
Onore all’Italia Olimpica, quindi. Occhio però che il bonus miracolo ce lo siamo giocato.
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