Non è ancora del tutto finita. Ci sono ancora il ricorso al Tar e, forse, il Consiglio di Stato a tenere accesa la fiammella nei tifosi del Chievo, almeno gli ultimi irriducibili.  Il Consiglio Federale, dopo aver indicato nella data odierna il termine perentorio per definire gli organici dei campionati professionistici, alla luce delle bocciature e dei successivi ricorsi presentati al Tar del Lazio, ha deciso di aspettare. Si attenderà l’esito del ricorso che il Chievo Verona ha deciso di presentare al Tar. In teoria il tutto dovrà avvenire entro il 15 agosto, ma è probabile che l’esito non arrivi oltre il 2 o 3 agosto. Quindi, si tratta di un’altra settimana ancora di attesa. O agonia, fate vobis.

Una mossa che molti considerano solo “prudenziale”, certo, ma che potrebbe comunque nascondere una percentuale pur minima di riuscire a ribaltare le sentenze che al momento stanno condannando il Chievo a sparire dal calcio professionistico. E ripartire da dove aveva cominciato, tanti anni fa. Nell’86 fece il salto nel mondo dei grandi e da allora è stata una scalata inarrestabile fino alla Serie A e addirittura ai preliminari di Champions League. Nato nel 1929, con novantadue anni di storia di cui ben 17 nella massima categoria italiana, la società oggi di Luca Campedelli rischia seriamente di scomparire, almeno per come l’abbiamo conosciuta in questi ultimi anni. Potrebbe ripartire da zero, dall’Interregionale, ma ovviamente le strutture societarie, lo staff di sede e molto altro non avrebbero più senso in quella situazione. Almeno fino a quando il Chievo non rientrerà nel calcio professionistico e quindi come minimo in Serie C. Il nostro pensiero va ovviamente alle decine di persone che lavorano in via Galvani, al centro sportivo del Bottagisio e a Veronello, che potrebbero perdere il posto di lavoro, ma anche a tutte quelle realtà che gravitano attorno al Chievo (perché fornitrici di servizi) e che – viste le inevitabili difficoltà societarie acuite da questa decisione – difficilmente troveranno soddisfazione per i loro crediti, almeno nel breve periodo. Una situazione che si riversa, di fatto, su un’intera comunità. Non è la prima volta e non sarà l’ultima, purtroppo, ma chissà se chi aveva la responsabilità di decidere ha valutato anche questo aspetto quando ha optato per la “linea dura”.

L’esultanza dei giocatori del Chievo durante una partita dell’ultimo campionato di Serie B 2020-2021 – Foto BPE (Maurilio Boldrini)

D’altronde è anche vero che le regole sono regole e il Collegio di Garanzia del CONI ha deciso di ribadire le decisioni già prese in precedenza dalla COVISOC, non recependo le istanze del Direttore generale Corrado Di Taranto. Il quale, nell’appassionata arringa difensiva, ha cercato di far valere le ragioni della squadra gialloblù. E cioè che la regolarizzazione fiscale – che doveva avvenire entro il 28 giugno – ha seguito le leggi nazionali. Al di là dei tecnicismi (non entriamo nel dettaglio, già abbondantemente spiegato da altri), quello che è certo è che il Chievo da parecchi anni versa in stato di difficoltà. Inutile rinvangare la dipartita nel 2014 di Giovanni Sartori, il direttore sportivo vero artefice della tanto decantata “favola” dei primi anni Duemila (e non a caso oggi deus ex machina per un’altra favola provinciale, quella targata Atalanta), e la girandola di dirigenti – più o meno capaci – che da allora hanno gravitato intorno alla società, facendo spesso fluttuare i bilanci con scelte a dir poco sbagliate. A cominciare dall’ingaggio di calciatori pagati ben oltre il consentito per portare un valore aggiunto alla squadra che, in realtà, solo in rari casi si è rivelato tale. I nomi sono sempre quelli. Gli ultimi portano a Djordjevic, Giaccherini e Pucciarelli, ma la lista è lunga. D’altronde da quando Nember (prima) e Romairone (poi) hanno sostituito il loro predecessore, il declino si è accentuato sempre di più. Il dramma delle plusvalenze del 2018, che di fatto ha decretato la retrocessione nell’anno successivo (con la penalizzazione in classifica e soprattutto il mercato estivo bloccato), ha solo accelerato il processo di “autodistruzione” e portato al triste epilogo di questi giorni che, chissà, forse epilogo vero ancora non è. I tifosi lo sperano. Ma a ben pensarci forse dovrebbero sperarlo un po’ tutti gli sportivi veronesi.

Al di là delle rivalità storiche con l’altra squadra dell’Hellas, il fatto di avere, unica città in Italia, tre squadre nel calcio professionistico (peraltro fino a ieri una in A, una in B e una in C, la Virtus) oltre a essere un orgoglio per tutti rappresentava anche in qualche modo la cartina di tornasole della bontà del tessuto imprenditoriale e gestionale cittadino. Questa debacle clivense, invece, dimostra che le difficoltà economiche possono essere sempre in agguato e che un errore può portare a un altro e un altro ancora. L’effetto domino che ha causato questa situazione nel Chievo era da tempo evidente, ma in pochi pensavano che la situazione fosse davvero così grave, anche quelli che vivono più da vicino la realtà gialloblù. E questo a dimostrazione, ancora una volta, di come una buona gestione dei bilanci debba sempre essere il primo imperativo di qualsiasi società, sportiva o meno che sia. Il fatto che possa – a seguito di queste decisioni, pur legittime – saltare un’azienda (perché di fatto il Chievo anche questo è), con molti nostri concittadini che potrebbero a breve perdere il posto di lavoro, non dovrebbe fare gioire proprio nessuno. Soprattutto dopo aver vissuto un anno come l’ultimo. Particolarmente ostico per tutta la nostra comunità.

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