Daniela è una solare e motivata insegnante di sostegno in un istituto professionale della provincia di Verona. Nata in Sicilia, si è trasferita più di dieci anni fa nella città di Verona, dove si è specializzata in multiculturalità e sostegno educativo.

Ci siamo incontrate perché mi ha molto incuriosita la sua esperienza con l’associazione Refugees Welcome Italia” un’associazione di respiro europeo che dal 2015 è presente anche in Italia e dal 2018 proprio a Verona.

L’associazione si propone come una possibilità concreta di ospitalità per tutti quei giovani o famiglie straniere che, dopo aver concluso il periodo di permanenza in un progetto di accoglienza istituzionale e aver ricevuto un documento che li autorizza a rimanere in Italia, si trovano senza un alloggio.

Molti di loro escono dai progetti senza un lavoro stabile, altri hanno rapporti professionali in regola – ma che vengono rinnovati ogni quindici giorni e non valgono come garanzia per un contratto di affitto. Se si aggiunge inoltre la comune diffidenza dei cittadini italiani a lasciare un appartamento in mano a qualcuno con il colore della pelle più scura, per i ragazzi in uscita dai progetti di accoglienza è veramente difficile trovare casa.

Daniela, quando hai cominciato a interessarti delle problematiche di migranti e rifugiati?

«Quando stavo ancora a Palermo, ero impressionata dalla quantità di ragazzi stranieri che vedevo girare per la città. Sembravano lasciati lì, dimenticati. Li vedevo girovagare per le strade e mi sembravano senza uno scopo, senza delle possibilità di impiegare meglio il loro tempo. Poi sono venuta a vivere al Nord e per me all’inizio è stata dura, vivere da sola in una città nuova, imparare a starci, a orientarmi. Mi tornavano spesso in mente quei ragazzi e mi chiedevo, se era difficile per me stare lontana da casa, quanto doveva esserlo per loro che vivevano delle differenze culturali e ambientali ancora maggiori rispetto alle mie?

Ho cominciato a sentire il bisogno di diventare attiva, di fare qualcosa, ma mi sentivo anche impreparata. Cosa potevo fare io da sola? Poi, in internet, ho scoperto che a Verona era appena nata la sezione di “Refugees Welcome Italia” e mi sono detta: Ecco, questo potrebbe essere qualcosa alla mia portata! Mi sono ritrovata a pieno nello slogan, che dà il nome alla rete di tutte le realtà impegnate nell’accoglienza: “Nella mia città nessuno è straniero”.

Ho iniziato quindi come attivista: attraverso la piattaforma della onlus analizzavo, con gli altri volontari, le domande di richiesta di alloggio e quelle di offerta. Si cerca di capire bene le motivazioni di chi offre ospitalità e i bisogni di chi la ricerca, in modo da realizzare l’abbinamento migliore per tutti i soggetti coinvolti. Piano piano, ho capito che l’esperienza di accogliere in casa qualcuno poteva essere adatta anche a me. In fondo l’appartamento in cui vivo è grande e ci poteva stare qualcun altro. Così da 10 mesi vivo con Amadou, un ragazzo di 22 anni originario della Guinea».

Daniela e Amadou

Come sta andando la convivenza?

«Molto bene! In poco tempo abbiamo imparato a condividere gli spazi con rispetto e collaborazione. Io all’inizio pensavo di aver accolto una specie di “fratello minore” e di dovermene occupare in tutto e per tutto. Poi ho capito invece che Amadou aveva una vita sua, degli amici, i suoi giri insomma. Come ce li ha un ragazzo di venti anni. E quindi ho smesso di pensare che avremo dovuto cenare sempre insieme, o che se io uscivo me lo dovevo portare dietro. Eravamo coinquilini, non fratelli. Per esempio quando lui mi diceva “Rientro tra poco” e poi passavano ore, all’inizio mi spaventavo. Adesso ho capito che il suo “tra poco” è molto relativo, lui invece ha imparato ad essere più attento agli orari. Sì insomma, come lo è un ragazzo di vent’anni, appunto.

Da parte sua invece c’è stata un’immediata attenzione agli spazi in comune: riordina, pulisce e lava senza problemi. Anzi, lo fa anche molto bene tanto che anche i miei amici, quando vengono a visitarmi, si accorgono se è stato lui a fare le pulizie! Si prende cura anche dei miei gatti. Penso sia il coinquilino perfetto da questo punto di vista!».

In questi dieci mesi com’è cambiata la vostra relazione?

«Io sono una persona molto aperta e mi fido molto delle mie sensazioni. Con Amadou ho capito subito che mi potevo fidare e così infatti è stato. Tanto che ora lo definisco un amico, non solo un coinquilino. Anche da parte sua, piano piano, è aumentata la confidenza nei miei confronti. Spesso chi accoglie un rifugiato, pensa che lui non veda l’ora di raccontare della sua vita, di cosa ha passato. Non è così. I ragazzi che abbiamo accolto come associazione si sono dimostrati tutti molto restii a parlare della loro vita “prima dell’Italia”. E’ qualcosa che va rispettato. Solo adesso, per esempio, Amadou mi racconta della sua famiglia in Guinea. Perché appunto, non siamo più due estranei che convivono, siamo due persone legate da un’amicizia costruita a poco a poco».

Come hanno accolto i tuoi amici, la tua famiglia, insomma i tuoi affetti, la tua decisione di accogliere in casa un rifugiato?

«Mah, ti dirò, nessuno mi ha osteggiato o mi ha detto qualcosa di spiacevole. Forse all’inizio c’era un po’ di titubanza, mi dicevano di stare attenta. Ma la mia famiglia, i miei amici, mi conoscono e sanno i valori che mi guidano. Anzi, ora persino i miei genitori, quando mi telefonano da giù, mi chiedono come sta Amadou, se sta bene. Si sono affezionati e lo stanno già invitando a fargli visita in Sicilia. È vero, alcuni colleghi mi hanno detto: “Stai facendo una cosa bella, ma io non lo farei mai”. Anche io pensavo così all’inizio, che non ne sarei mai stata capace. E invece poi non solo ho sentito che era una esperienza giusta per me, è anche qualcosa che mi arricchisce. Che mi fa andare oltre me stessa».

Anche le altre convivenze che state seguendo come associazione stanno andando così bene?

«Sì. E questo, come attivisti, ci rallegra molto. L’associazione offre supporto e formazione di vario genere (legale, economica, relazionale) a chi ospita un rifugiato se lo necessita. Ma devo dire che non ci sono stati grossi problemi da affrontare. Forse il periodo più critico è stato durante il primo lockdown, ma quello è stato duro per tutti!».

Hai detto che è un’esperienza che ti sta arricchendo come persona. Vista da fuori invece sembra qualcosa di molto impegnativo. Aprire le porte di casa a qualcuno che non si conosce, condividere i propri spazi…

«Purtroppo le nostre città sono molto chiuse. Anche Verona lo è, vista da fuori. E la pandemia, secondo me, ha peggiorato la situazione. La gente ha più paura, è più chiusa. Ripiegata sulle proprie piccole cose. Ma poi, se guardi meglio, c’è sempre un gruppo di persone che ha voglia di mettersi in gioco. Che si sente soffocare a vivere così. Che desidera mettersi a disposizione per aiutare qualcun altro. Certo, siamo una minoranza, ma ci siamo. E volentieri siamo disponibili a rispondere a domande, curiosità di chiunque voglia conoscere meglio “Refugees Welcome Italia”. Speriamo tanto che nel prossimo periodo possano riprendere le attività di promozione, per farci conoscere meglio. Sia da chi vorrebbe accogliere o diventare attivista, sia per i ragazzi che cercano un alloggio».

Quindi l’esperienza di accoglienza ti sta arricchendo perché ti dà modo di renderti utile?

«Proprio così. É bello sentire che sei utile a qualcuno. Te ne prendi cura. Che non stai vivendo solo per te e basta. Aprendo la porta di casa si dà un’opportunità enorme a questi ragazzi. Se non fosse qui, dove sarebbe Amadou adesso? Nel dormitorio dove stava prima forse. Chi lo sa?».

“Accoglienza” e  “Integrazione” sembrano parole così astratte, così abusate a volte. Daniela invece ci mostra come possano trasformarsi in azioni alla portata di tutti, in semplici gesti di condivisione quotidiana. Non c’è retorica, non c’è sentimentalismo, non c’è idealismo. C’è solo una porta che si apre e un’opportunità che si crea.

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