Raggiungere la verità nella valutazione della qualità del lavoro di un allenatore è molto difficile, forse impossibile. Troppo soggettivi i pareri, troppo discordanti le considerazioni da proporre. Solo i risultati possono essere un elemento di giudizio oggettivo, ma è un parametro, non l’unico da prendere in esame.
Riteniamo dunque opportuno avviare una serie di articoli che mirano ad offrire alcuni spunti di riflessione sul tema. L’obiettivo è quello di fare chiarezza in una materia così complessa e opinabile, attraverso analisi e varie chiavi di lettura che permettano di orientarsi meglio sugli elementi da prendere in considerazione quando si valuta l’impatto del lavoro di un tecnico. Il rischio di sedersi al Bar Sport e giudicare con superficialità è sempre dietro l’angolo.

Innanzitutto, occorre segnalare che la narrazione dei media attorno al ruolo dell’allenatore rimane uno degli argomenti più in voga. Allo stesso tempo viene affrontato spesso con approccio da tifoso, sovente senza quelle conoscenze di base della disciplina in oggetto che servirebbero per potersi esprimere compiutamente. La conseguenza è che i fiumi d’inchiostro spesi per capire vizi e virtù dei singoli tecnici, si orientano a seconda della bandiera di appartenenza o, a volte, della comodità e della moda, quasi mai vengono influenzati da parametri di efficienza professionale.  

La prima osservazione importante da proporre
è distinguere tra gli sport di squadra e discipline individuali

Premesso che l’interpretazione del ruolo tecnico muta a seconda di quale disciplina si osservi, è evidente che l’allenatore in sport individuali tenda a rimanere nell’ombra più degli allenatori degli sport di squadra, a prescindere dalla propria incidenza. Nelle discipline individuali si sottostima, quindi, l’impatto della guida tecnica sui risultati dell’atleta, ma in fondo non sempre è giusto che sia così. La causa va ricercata nel fatto che l’allenatore non accompagna l’atleta in campo e non prende decisioni mentre si genera la prestazione sportiva, situazione che viceversa si verifica negli sport di squadra in cui l’allenatore è chiamato a essere protagonista nella gestione del tempo di gara. Logico, dunque, che in questi casi vi sia una sovraesposizione mediatica che accentua la percezione di coinvolgimento dell’allenatore nelle prestazioni sportive di team, anche quando magari non le determina, se non marginalmente.
Tutti noi, se ci pensiamo, ricordiamo il Milan di Sacchi e l’Inter di Helenio Herrera, gli Spurs di Gregg Popovich o la Duke University di Mike Krzyzewski, le nazionali italiane di Ratko Rudic, di Julio Velasco e di Bosha Tanjevic, per citare alcuni esempi. Fatichiamo, viceversa, a ricordare l’immenso lavoro di un Tino Pietrogiovanna e di un Gustav Thöeni con Deborah Compagnoni e Alberto Tomba o, cambiando disciplina, di un Vitalij Petrov, tecnico che seguì Sergei Bubka centimetro dopo centimetro oltre i sei metri. Così come, seguendo lo sport contemporaneo, in pochi sanno che dietro alla ritrovata onnipotenza tennistica di Novak Djiokovic siede Goran Ivanisevic, noto come ex giocatore più che come tecnico.
Certo, eccezioni a questa diversa rilevanza del ruolo dell’allenatore ve ne sono. Basti solo pensare alla notorietà del compianto Alberto Castagnetti, mentore di Federica Pellegrini o a Sandro Donati, capace di riabilitare la figura di Alex Schwatzer come nessun altro avrebbe saputo fare. Sono casi in cui la fama del coach supera quasi quella dell’atleta, ma nelle discipline individuali rimangono dei rari esempi. L’allenatore degli sport di squadra, in generale, invece, è quasi sempre al centro dell’attenzione. Aspetto che possiamo spiegare con le considerazioni su esposte, ma che, per certi versi è anche contro intuitivo. Da un punto di vista numerico, infatti, un Roberto Mancini oggi vale circa 1/30 della nazionale italiana – se comprendiamo giocatori e staff ristretto – rapporto infinitesimale rispetto a qualsiasi altro sport individuale. Eppure, sembra che il tecnico marchigiano sia arrivato ai quarti di finale degli Europei quasi da solo. Al di là di un positivo giudizio sull’operato di Mancini, è una distorsione della realtà dei fatti che ci induce all’errore di disconoscere il valore tecnico e umano di chi sta indossando la maglia azzurra in campo.

I media, dunque, complicano l’elaborazione di un giudizio di buon senso sugli allenatori, e creano condizionamenti dettati da sovra esposizione e sotto esposizione. Depurare le valutazioni da questi elementi è compito arduo, ma non impossibile. Serve, però, comprendere meglio quali siano le diversità principali tra discipline individuali e di squadra e che determinano i confini entro cui i tecnici svolgono il proprio ruolo di allenatore.

È una questione di responsabilità dell’atleta

Negli sport individuali l’atleta cresce con la cultura dell’assunzione di responsabilità. Fin da giovane si rende conto che non può bluffare o nascondersi dietro alle responsabilità altrui. Lui è il protagonista, lui l’artefice dei propri risultati. Impara a conoscere presto le proprie qualità e i propri limiti, diventando in prima persona profondo conoscitore della disciplina praticata e prendendo spunto da ogni gara per ricevere un feedback nuovo e utile come esperienza. Chi perde o non rende non può far altro che assumersi le proprie colpe, chiare a tutti, anche a tifosi e narratori. Una volta maturo, se ancora compete, è autonomo entro certi limiti dalla presenza di una guida tecnica, è responsabile di sé in termini assoluti e addirittura ha il compito e onere di scegliersi personalmente l’allenatore. Anche questa è una responsabilità.
Negli sport di squadra il percorso è diverso, quasi opposto: l’atleta è in gran parte dipendente dalle scelte dell’allenatore, quasi impossibile pensare, ad esempio, che possa allenarsi e giocare insieme alla propria squadra senza la presenza stabile di una guida tecnica. I giovani non vengono abituati all’autonomia e questo rimane un grave errore. Ogni ragazzo ha più difficoltà a formarsi un giudizio incontrovertibile su di sé, a causa del subentrare di molti elementi diversi tra di loro che condizionano i vari feedback. In una squadra, a volte, è difficile definire le responsabilità, magari generate da processi e interazioni di gruppo complesse che a volte sfuggono anche agli stessi attori protagonisti. In un contesto di team, un atleta forte può non vincere o, a volte, può vincere senza esserlo, cosa impossibile in una disciplina individuale. Questa mancanza di feedback certi e incontrovertibili favorisce la cultura dell’alibi e della personale quotidiana deresponsabilizzazione. Produce la conseguenza che il risultato diventi l’unico grande giudice che divide il successo dall’insuccesso, trascurando il percorso fatto dagli atleti. Per contrastare queste derive, sia tra gli atleti che tra gli allenatori e i dirigenti, serve un percorso formativo di grande qualità umana e sportiva che, viceversa, non guardi al risultato in età troppo precoce e, in generale, che non guardi mai al singolo risultato di breve periodo. Se così non avviene, l’allenatore sovente diventa il naturale e principale parafulmine, strumento utile a offrire risposte semplici, facilmente comprensibili e che mettano tutti d’accordo. O, altrimenti, nei casi di successo, diventa l’assoluto e spesso eccessivo protagonista. Quasi un guru, un profeta.

Appare dunque comprensibile quanta differenza vi sia nel ruolo di un tecnico e l’altro a seconda della disciplina seguita. Cambia il contesto, cambiano le caratteristiche degli atleti. Nel prossimo approfondimento entreremo nel dettaglio dei vari modelli di allenatore, cercando di comprendere se ne esistano di migliori, o di più adatti, rispetto ad altri.

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