Grande Castelvecchio: una vicenda antica
Il Circolo Ufficiali, dopo quasi cent'anni e molte possibili collocazioni alternative, è ancora lì, nonostante quegli spazi vengano invocati per allargare il progetto museale del Grande Castelvecchio.
Il Circolo Ufficiali, dopo quasi cent'anni e molte possibili collocazioni alternative, è ancora lì, nonostante quegli spazi vengano invocati per allargare il progetto museale del Grande Castelvecchio.
Una vicenda antica almeno quanto il museo. Potremmo riassumere così la questione del Circolo Ufficiali – ora Circolo Unificato dell’Esercito – a Castelvecchio, una sorta di fiume carsico del dibattito pubblico cittadino, riemerso negli ultimi giorni attraverso i vivaci scambi di battute fra esponenti della politica cittadina attorno ad un progetto, quello del cosiddetto Grande Castelvecchio, promosso da una rete di associazioni culturali riunitesi da alcuni anni sotto il nome di Civica Alleanza.
La questione, si diceva, è antica quanto il museo, anche perché tutto il compendio di Castelvecchio è da sempre legato alla dimensione militare della città. Dapprima presidio fortificato voluto da Cangrande II per controllare Verona in caso di insurrezione e disporre, nei casi peggiori, di una comoda via di fuga verso nord, quindi acquartieramento di truppe veneziane durante lungo dominio della Serenissima, che nel XVIII secolo vi insediò anche un istituto di formazione per genieri, e infine caserma napoleonica e asburgica dall’aspetto decisamente più tozzo e minaccioso a causa delle modifiche apportate dai francesi dopo le Pasque Veronesi. Castelvecchio è stato una caserma fino a tempi insospettabilmente recenti, vale a dire l’indomani della Prima guerra mondiale, un conflitto che nel più brutale dei modi possibili aveva dimostrato a tutti gli eserciti europei, e all’antiquata macchina da guerra del Regno d’Italia in particolare, l’inadeguatezza delle tecniche tradizionali insegnate agli ufficiali nelle scuole di guerra. Quella danza complessa ed elegante di squadroni a cavallo e ordinati reparti di fanteria che si era via via perfezionata dall’età napoleonica fino a dominare le “grandi manovre” della Belle époque, aveva lasciato spazio ad un conflitto brutale ed estenuante, che nulla concedeva all’estetica e al virtuosismo e rimetteva al centro il singolo fante come pedina di un gioco sanguinoso quanto incomprensibile fatto di trincee, avanzate nel fango sotto il fuoco delle mitragliatrici, sortite sanguinose e attese estenuanti.
Com’era cambiata – e molto – dovevano anche cambiare le infrastrutture militari, e non è dunque un caso che proprio negli anni successivi alla fine del conflitto, un governo Mussolini che pure aveva e avrebbe fatto del militarismo muscolare ed esasperato uno dei puntelli della propria ideologia decidesse, auspice il veronese Alberto de’ Stefani ministro del tesoro e delle finanze, di concedere l’uso del castello scaligero ai musei civici di Verona, allora diretti dall’eclettica figura di Antonio Avena. Siamo nel 1923 e già allora la sensibilità comune riconosce che, in una Verona ancora fortemente segnata dalla presenza militare, Castelvecchio non può che rappresentare la sede più naturale per le collezioni d’arte della città, accumulate fino a quel momento negli spazi ormai divenuti angusti di palazzo Pompei a porta Vittoria, sede primigenia del museo civico. Tra il 1923 e il 1926 un giovane architetto della soprintendenza, Ferdinando Forlati, cura insieme ad Avena il ripristino del castello, con l’intento di restituire alla caserma deturpata dall’utilizzo militare l’aspetto di un maniero medievale: in pochi anni su Castelvecchio tornano a svettare le torri e i merli ghibellini capitozzati dalle armate napoleoniche, e dai camminamenti di ronda appena ripristinati si possono ammirare le facciate della caserma trasfigurate in un “catalogo” di antica architettura veronese grazie all’inserimento di portali, finestre ed elementi decorativi provenienti da edifici ormai distrutti. Mentre Avena costruisce a Castelvecchio la sua incantata quanto improbabile reggia scaligera, i cui interni di gusto storicista ospiteranno, qualche anno dopo, alcuni dei momenti più bui della parabola fascista e della storia d’Italia, il Comune, non ancora proprietario del compendio (lo diventerà soltanto nel 2016), e l’Intendenza di Finanza di Verona firmavano, nel 1928, l’atto di “cessione in uso perpetuo” dello stabile, con il vincolo che fosse destinato ora e per sempre a museo.
Ed è proprio in questo apparentemente grigio documento di ordinaria burocrazia che affondano le radici della nostra storia, ancora priva di conclusione.
Perché dopo aver enumerato i valori – stimati chissà come – delle varie porzioni del castello, nell’atto di cessione si inseriva una postilla dal contenuto strettamente provvisorio, ma come nella migliore tradizione nazionale destinata (si spera non per sempre) a diventare definitiva: «nella presente cessione sono compresi anche i locali dello stabile sopra descritto attualmente occupati dal Circolo Militare» riportano le scarne battute di macchina da scrivere, che poco dopo aggiungono perentorie che «tale occupazione è inteso debba cessare non appena il Comune di Verona metterà a disposizione dell’Amministrazione Militare altri locali adatti allo stesso scopo». Non un dubbio interpretativo, non un’esitazione da parte delle autorità scriventi: il circolo ha la sua sede in Castelvecchio in virtù di una convenzione sottoscritta qualche anno prima, e può restare. Ma pro tempore, e con il vincolo di lasciare libera la sua porzione di castello – già nella disponibilità del Comune – non appena gli sarà fornita una sede alternativa.
Quasi cent’anni, e molte possibili collocazioni alternative dopo, il Circolo è ancora lì, e sembra inamovibile. Ma davvero nulla, da allora, è cambiato? Proveremo a capirlo nel seguito di quest’articolo… (to be continued)
Foto di copertina di Osvaldo Arpaia
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