La Cgil di Verona rappresenta circa 59 mila iscritti. Stefano Facci, 60 anni, è segretario Generale della Cgil di Verona dal 2018. Ha iniziato a lavorare in Overmeccanica. La sua attività lavorativa è proseguita in Fiom, prima come funzionario, poi come Segretario Generale. Successivamente ha ricoperto la carica di Segretario Generale della Fillea, nel settore delle costruzioni; per ultimo è stato  Segretario Generale della Flai, settore agroindustriale. Facci ha avuto modo, quindi di conoscere alcune delle realtà industriali più importanti della nostra provincia. Con lui abbiamo parlato di lavoro presente, di quello futuro, di Italia e Verona. Temi nazionali ed ambiti locali si intrecciano dunque in questa chiacchierata.

Facci, oltre due morti sul lavoro, al giorno, dall’inizio dell’anno. Dopo la leggera flessione dell’anno scorso, esclusivamente dovuta alla pandemia, assistiamo in questi mesi ad una ripresa impressionante. Cosa sta accadendo?

Stefano Facci

«Siamo di fronte ad una realtà complicata dove alle mancanze o inadempienze già conosciute si aggiunge una sorta di necessità/desiderio delle imprese, e talvolta pure dei lavoratori, di recuperare il tempo perduto a causa del Covid.  Si tratta di una situazione in cui troppo spesso, a causa della forte pressione su produttività e ricerca del profitto. si azzarda e ci si spinge troppo vicini al limite del rischio.»

Come si colloca la nostra città in tutto questo?

«La realtà veronese impressiona sia per il numero dei morti, ma anche per quello degli infortuni più o meno gravi. Nel 2019 Verona era la maglia nera del Veneto per quanto riguarda gli infortuni sul lavoro. Solo la fortuita casualità ha permesso che questi incidenti non si trasformassero in altrettanti decessi o infortuni invalidanti. Sono ancora poche le aziende che analizzano i mancati incidenti e cercano di porvi rimedio attraverso l’applicazione di precise procedure. Tutto viene lasciato al caso o, se vogliamo, alla fortuna. Noi spingiamo sulla necessità di investire nelle migliori tecnologie disponibili sul mercato e sulla formazione continua. Mercato e tecnologie sono in costante e rapido mutamento e cosi dovrebbe essere pure l’investimento tecnologico e la formazione. Tutto questo dovrebbe essere visto in una logica di investimento e non di mero costo. Vanno inoltre potenziati gli organici degli enti ispettivi, il miglioramento qualitativo e quantitativo dei loro interventi di controllo nei luoghi di lavoro deve essere di deterrente da integrare anche con un vero e proprio ruolo di assistenza alle imprese che porti all’estensione di tutte le buone pratiche disponibili nei vari settori di lavoro.»

C’è chi ha affrontato la pandemia in modo responsabile e chi ha cercato di approfittarne regolando i rapporti di forza all’interno delle aziende con lavoratori e sindacato.

«Anche qui ci sono luci ed ombre. Ci sono aziende che hanno investito nei “comitati covid” ed altre che hanno fatto finta di niente. Chi ha investito in questo ambito è riuscito a ripartire in modo coerente; in altri casi, per non lasciare le lavoratrici ed i lavoratori allo sbando, è dovuto intervenire il sindacato. Nella prima fase della pandemia hanno smesso di lavorare i giovani e le donne assunte con contratti a termine o di somministrazione. Nella seconda fase abbiamo visto una forte contrazione del lavoro che vedeva coinvolte le partite IVA. Come sindacato abbiamo denunciato da tempo l’utilizzo delle partite IVA come forma di lavoro subordinato mascherato.»

Il virus ha fatto esplodere in modo dirompente il lavoro a distanza, le consegne a domicilio, il lavoro nei supermercati, quello in agricoltura e nel settore sanitario, ultimo nell’elenco ma non per importanza. Sono tutti settori con ampi margini di sfruttamento ed in deficit di contrattazione.

«Smart working dovrebbe significare come “lavoro intelligente”. Il lavoro da casa non è  smart working. La pandemia ha fatto emergere tutte le contraddizioni dell’organizzazione del lavoro. L’attuale “lavoro da casa” riguarda prevalentemente le donne. A loro è toccato subire, di fatto, un’estensione dell’orario di lavoro oltre alla sovrapposizione con i tempi della scuola dei figli in DaD. Poi, visto che il lavoro si svolge in casa, ed il computer è sempre acceso, risulta più facile approfittare per svolgere pure i lavori di casa e preparare i pranzi. Abbiamo affrontato questa fase senza che una qualsiasi contrattazione regolasse le modalità del lavoro da casa. Per quanto riguarda il settore della Sanità non posso che sottolineare come tutto il settore sia stato travolto dall’emergenza. Ora ci troviamo di fronte a molti margini da recuperare. Le lavoratrici ed i lavoratori della sanità hanno ricevuto un grande riconoscimento emotivo ma poco o nulla sotto il profilo del riconoscimento professionale. Anche la scuola è stata sopraffatta dal virus. Ai problemi già noti e più volte denunciati nel passato, si sono aggiunti quelli attuali con la difficoltà di gestire didattiche a distanza e stabilire una concreta modalità di contatto con gli studenti. Tra problemi più dirompenti dobbiamo mettere sicuramente quello degli spazi, dell’edilizia scolastica e dei trasporti. La pandemia li ha aggravati e tutt’ora non sono state trovate soluzioni soddisfacenti.»

Su tutte queste situazioni di difficoltà si innesta inoltre lo sfruttamento dei migranti ed il caporalato, piaghe molto presenti anche nel veronese.

«La vicenda dei migranti riguarda le persone più ricattabili. Per loro raramente lavoro in regola. Più facile il lavoro nero oppure quello grigio in cui la parte in regola è solo una piccolissima fetta del tutto. Tradotto in soldoni, con un esempio “ ti metto in regola per 4 ore e poi te ne faccio lavorare 10. Molte volte ci troviamo ad affrontare situazioni in cui i migranti lavorano tutti i giorni nei campi ma il datore di lavoro denuncia un numero di giornate inferiori al minimo per ottenere la disoccupazione.»

Tra poco decadranno i termini del blocco dei licenziamenti, peraltro bypassati in moltissime situazioni. Quali sono i numeri in ballo e cosa accadrà, da luglio, in Italia e a Verona?

«Io credo che il blocco dei licenziamenti deva essere prorogato fino alla fine dell’anno. Ci sono situazioni di crisi aziendali già conclamate, ma bloccate dal covid-19. Talvolta si tratta di realtà superate dall’innovazione tecnologica che si sono trovate quasi automaticamente fuori dal mercato. La mia sensazione è che la ripresa sarà lenta. Dovremo affidarci alla scienza e partire con cautela. Credo che prima di tutto venga la sicurezza: sicurezza del lavoro, sicurezza dal virus e sicurezza di poter lavorare dignitosamente senza dover rischiare di rimanere feriti oppure di morire. Una delle domande che dovremmo porci è: ” Ripartire, ma per fare cosa?”. Il turismo, ad esempio, dovrà continuare ad essere di massa oppure dovrà cambiare? Nel momento in cui stanno per arrivare soldi dall’Europa dovremmo porci come obbiettivo quello di cercare di tenere assieme economia, lavoro e buona occupazione.»

Da molti anni si parla di Verona come una città colpita da una forte “desertificazione industriale”. Questione di scelte oppure di non-scelte?

«A Verona siamo di fronte ad una sorta di attendismo imprenditoriale. Questa sembra essere una caratteristica veronese di questi ultimi tempi, probabilmente dovuta al passaggio generazionale tra i vecchi fondatori delle aziende ed i loro successori. Aspettare che il caso dell’aeroporto lo decida il mercato, e nel frattempo SAVE diventa sempre più predominante, o che la vicenda della Fiera rimanga legata soltanto a vino, cavalli, settore ricettivo e poco altro, sono due classici casi in cui l’imprenditoria e la politica locale preferiscono rimanere alla finestra in attesa che altri decidano per loro. A Verona ci sono settori letteralmente abbandonati oppure ceduti all’estero. Mi riferisco in modo particolare al termomeccanico. Qui le eccellenze si chiamavano Ferroli, Sime, Riello, Biasi ed oggi non ci sono più oppure sono state ridimensionate. Il Polo italiano del termomeccanico è stato incapace di trasformarsi e collaborare e così ora di tutto ciò rimane molto poco. In questo momento, con ogni probabilità c’è più industria a Legnago che a Verona. Il deserto della Zai sembra raccontare una sorta di desistenza dell’imprenditoria locale.»

L’interno dell’Arena in una foto di Sarah Baldo

Cultura e turismo sono due settori di eccellenza del veronese. Sono però due settori massacrati dalla crisi da covid 19, due ambiti dove spadroneggia la precarietà. Ora come se ne esce?

«L’Arena rischia di essere un elemento esclusivamente economicistico. Ci concentriamo sulla stagione lirica estiva e meno sul progetto culturale che si dovrebbe sviluppare lungo tutto l’anno coinvolgendo maggiormente il Teatro Ristori. Poi esiste un problema di qualità dell’offerta, piegata agli interessi economici più che a quelli culturali.»

Il sindacato sembra essere messo un po’ nell’angolo. Ai problemi del passato si sono aggiunti quelli della pandemia. Nella situazione dell’ultimo anno è ovviamente risultato difficile rapportarsi con i lavoratori e le lavoratrici. Altrettanto difficile fare contrattazione.

«A me pare che ci sia una sorta di inversione di tendenza. In questo momento il Sindacato partecipa, a livello nazionale, ai tavoli dove sono stati definiti importanti interventi per la gestione dell’emergenza sanitaria,  cosa che solo pochi anni fa (Governo Renzi) era impensabile. Inoltre in questo periodo, a livello locale, abbiamo contrattato tutti gli aspetti relativi agli ammortizzatori sociali. Aggiungiamo pure che siamo riusciti a definire qualche contratto nazionale e questo mi porta ad affermare che il sindacato non è affatto marginalizzato ma è tornato in pista. La nostra volontà è di continuare ad esserlo anche su tutto il tema relativo al PNRR.»

Capitolo a parte è quello legato all’occupazione femminile, sempre la più colpita e la più sottopagata. Che fare?

La questione femminile è sempre molto delicata. Noi dovremmo riuscire ad affrontare, nella contrattazione, la conciliazione del tempo di lavoro col tempo di vita. Cosa non facile se a prevalere saranno sempre e solo le esigenze dell’economia e della produzione. Forse negli ultimi anni ci siamo occupati prevalentemente di salario e meno di queste cose che sono altrettanto importanti. In questo momento esiste certamente il problema di essere giovani,  donne e precarie. Questo va a cozzare inevitabilmente contro qualità e tempi di vita.»

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