La Convenzione di Istanbul e questa storia del “gender”
Indignarsi per chi non ratifica la Convenzione che protegge le donne o chi ne recede è tempo sprecato. Meglio agire, velocemente per aggirare l'ostacolo.
Indignarsi per chi non ratifica la Convenzione che protegge le donne o chi ne recede è tempo sprecato. Meglio agire, velocemente per aggirare l'ostacolo.
Il recente incontro tra i massimi rappresentanti di Unione Europea e Turchia è finito su tutti i media ma forse l’indignazione emersa da più parti non ha le giuste motivazioni. La “gaffe del sofa” sembra strategicamente “piazzata ad arte” da Erdoğan per far passare in secondo piano i temi di cui davvero si dovrebbe parlare. Indignarsi per un protocollo seguito fin troppo alla lettera, con colpevole miopia da parte di tutti gli attori, ha infatti fatto sparire la questione dei diritti, in particolare di quelli delle donne. L’annunciato ritiro con efficacia 1° luglio 2021 della Turchia dalla Convenzione di Istanbul si incastra perfettamente nello schema di soppressione dei diritti civili, di regolamentazione di ogni aspetto della vita sociale in ottica islamista. La Turchia, primo firmatario peraltro, decide di recedere scatenando l’indignazione di un’opinione pubblica ancora una volta distratta dai titoloni e apparentemente troppo pigra per grattare sotto la superficie. Proviamo a fare chiarezza sui fatti, quelli importanti.
La Convenzione è un’iniziativa del Consiglio d’Europa (da non confondere con il Consiglio Europeo, istituzione dell’Unione Europea), un organismo internazionale con sede a Strasburgo, di cui fanno parte 47 Paesi: i 27 della UE, 15 nazioni non-UE ma nella cosiddetta Europa geografica e altri non-UE e al di fuori dei confini geografici (tra cui la famigerata Turchia); sorto nel 1949 con lo scopo di evitare il ripetersi degli orrori della guerra, promuove la democrazia, i diritti umani e lo stato di diritto.
Il trattato è ufficialmente intitolato “Convenzione sulla prevenzione e lotta alla violenza contro le donne e alla violenza domestica” ma è ben più noto con il nome della città dove è stato approvato nel maggio 2011. Il suo preambolo richiama altre convenzioni europee e globali sui diritti umani, nel cui spirito si inserisce per un’azione specifica a sostegno delle donne.
È un testo accurato e sensibile, completo al punto da includere i bambini testimoni di violenze sulla madre. Le parole contano e riteniamo di dover riportare un paio di definizioni come previste dalla Convenzione, per far chiarezza sugli sviluppi recenti riguardanti la Convenzione ma anche la legge Zan che occupa molto spazio mediatico in questi giorni.
Violenza contro le donne: è una violazione dei diritti umani e una forma di discriminazione nei confronti delle donne sulla base del genere, che risultano in sofferenza fisica, sessuale, economica o psicologica.
Genere (gender in inglese): è semplicemente l’insieme dei ruoli, comportamenti e attività che la società considera appropriati per gli uomini e per le donne; questo termine viene ora estremizzato, portato a un significato che non possiede e non ha mai avuto.
Violenza di genere: unendo i due concetti, si tratta della violenza contro una donna solo per il fatto che è una donna oppure, aggiunta illuminata da parte del legislatore, la violenza che in base ai dati reali colpisce le donne in modo sproporzionato rispetto agli uomini.
La convenzione proibisce le discriminazioni, fissa le linee guida per le normative nazionali, pone le basi per un sistema di prevenzione, monitoraggio (gli Stati devono periodicamente fornire i propri dati) e protezione delle vittime. Quello che non fa, ma tristemente viene preso come scusa per non ratificarla o per recedere, è imporre un determinato stile di vita o interferire con la vita privata delle persone. Non intende cancellare le differenze sessuali tra i generi o promuovere un particolare tipo di famiglia, che anzi non è nemmeno definita nel testo. La strumentalizzazione dei movimenti ultra-cattolici o conservatori è quindi, almeno sulla carta e nelle parole, del tutto ingiustificata.
E non stiamo parlando (solo) della Turchia, ma di Paesi molto più vicini a noi, di politici che si definiscono democratici, di membri della UE che beneficiano di aiuti europei ma non esprimono lo spirito fondante dell’Unione, che è stata (come blocco) la prima firmataria insieme alla Turchia. La Convenzione è stata ratificata e quindi integrata nell’ordinamento nazionale da circa 30 dei 43 firmatari originari, con qualche defezione illustre.
Si tratta di paesi dell’Europa Orientale: Ungheria, Bulgaria, Repubblica Ceca, Slovacchia e Polonia. È una questione semantica, come si diceva, con i conservatori convinti che usare la parola “gender” sia un mezzuccio per infilare di nascosto negli ordinamenti nazionali una cancellazione delle differenze tra i sessi e la “normalizzazione” dell’omosessualità. Temono che sia sotto attacco il sistema sociale basato sulla famiglia composta da uomo e donna. Gender è la concezione che ha la società di cosa è appropriato per una donna o per un uomo, è la definizione del ruolo riconosciuto all’interno della società alla donna, posto in relazione al fatto che subisce violenza per essersi discostata dal modello sociale. Dieci anni fa, il testo fu sottoposto e approvato sia dai movimenti sociali, che dai conservatori e perfino dai gruppi religiosi. Ora siamo tornati indietro.
La UE come blocco ha firmato ma non ancora ratificato la Convenzione, in quanto per diventare legalmente vincolante necessita dell’unanimità degli Stati membri, impossibile da raggiungere viste le posizioni irremovibili dei dissidenti. Ma non mancano le contromisure: in occasione della Festa della Donna, lo scorso marzo, la Commissione Europea ha emesso un comunicato sottolineando il peggioramento delle condizioni delle donne e delle madri durante la pandemia e i tassi di disoccupazione femminili che si sono impennati. Parlando poi della strategia per la Gender Equality (non è altro che la parità di genere), il comunicato preannuncia che “nell’anno in corso la Commissione presenterà una nuova proposta per combattere la violenza di genere nella UE”. Tradotto dal politichese, la UE sembra intenzionata a “superare” quella Convenzione di Istanbul rivelatasi non percorribile con un disegno di legge specifico che ne ricalchi ovviamente spirito e principi. Per rendere vincolante per gli Stati membri una legge europea, in fondo, basta una semplice maggioranza e quella, per fortuna delle donne e delle bambine, già è consolidata.
Nell’ambito dei diritti civili, il progresso è lento da conquistare ma rapidissimo da perdere. Su questo tema non si può mollare adesso, non con vittime di violenza in continuo aumento, non con i femminicidi arrivati a numeri spaventosi, non con le aggressioni agli omosessuali di cui si sente ormai quasi ogni giorno. A questo punto è ininfluente chi resta o lascia la Convenzione, bensì che la UE si muova in fretta a sostituirla e la imponga anche agli Stati refrattari, che poi sono gli stessi che si fanno notare per leggi contro il diritto all’aborto, contro le manifestazioni di piazza, contro il giornalismo indipendente, contro i diritti umani fondamentali. Cara UE, viene il dubbio che forse staremmo meglio senza (i Paesi, non i diritti).
© RIPRODUZIONE RISERVATA