Immaginate di essere sfrattati da un appartamento per cui pagate puntualmente l’affitto, un appartamento che magari vi è stato assegnato dalle stesse autorità che ora vi cacciano. Il motivo? La vostra razza, o meglio, il vostro «background non occidentale». 

Non siamo nella Polonia occupata degli anni Quaranta né nel Sudafrica dell’Apartheid. Siamo in un Stato europeo tra i più avanzati dal punto di vista dei diritti, peraltro guidato da un governo socialdemocratico: la Danimarca. 

La proposta danese è di limitare la presenza di abitanti non occidentali al 30% nei quartieri più difficili, in modo da evitare la creazione di «società culturali parallele». In altre parole si vuole evitare una concentrazione di immigrati, in modo da favorire l’integrazione e ridurre i problemi sociali connessi ai ghetti.

Si tratta dell’ultima aggiunta a un pacchetto di regolamenti proposto già nel 2018 dal governo precedente, che aveva parlato apertamente di «Ghetto Package laws» ed era stato messo sotto accusa dal Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite (OHCHR). 

Il cuore della questione riguarda il legame esplicito che il governo danese riconosce tra l’esistenza dei ghetti e la presenza di immigrati. In particolare, nelle leggi vigenti dal 2018, vengono definiti “ghetti” quei quartieri in cui la presenza di immigrati superi il 50%, in cui la disoccupazione sia oltre il 40%, in cui più del 60% dei cittadini di età compresa tra 39 e 50 anni sia privo di istruzione superiore, in cui il tasso di criminalità sia almeno tre volte superiore alla media nazionale e, infine, in cui il reddito dei residenti risulti inferiore al 55% della media nazionale.

Una volta che un quartiere cade nella definizione di ghetto, le conseguenze per i residenti sono gravissime: per loro le pene comminate in caso di reati possono essere raddoppiate, mentre, per le famiglie “non occidentali” esiste un obbligo di separazione dai propri figli di età superiore a un anno per almeno 25 ore diurne a settimana, per far si che siano maggiormente esposti alla cultura danese. Inoltre gli aiuti sociali per chi vive nei ghetti sono ridotti, in modo da rendere meno “economicamente desiderabile” traslocare in questi quartieri.

Periferie degradate: una questione di sicurezza, economia e cultura.

Il timore della nascita di “società culturali parallele” è in primo luogo legato alla sicurezza interna e alla guerra contro il crimine e il degrado, ma è evidente che un approccio di questo tipo consideri la presenza di cittadini provenienti da contesti non occidentali come unica causa del disagio delle periferie.

La società danese sta cercando di evitare in ogni modo che si crei una situazione simile – fatte le debite proporzioni – a quella delle malfamate banlieue francesi, che nei decenni sono diventate zone completamente escluse dal controllo delle autorità, in cui la sharia islamica viene di fatto implementata dai residenti e che hanno talvolta fornito un ambiente fertile anche per il processo di estremizzazione religiosa le cui tragiche conseguenze hanno colpito la Francia negli scorsi anni.

Rivoltosi combattono la polizia a Nørrebro – Jordogbeton (public domain)

Va poi considerato che la Danimarca, come gli altri paesi del nord Europa, vanta un sistema di welfare avanzatissimo, con una pressione fiscale che supera il 50% e che garantisce, secondo recenti studi, un livello di felicità della popolazione tra i più alti al mondo.

In seguito alla crisi migratoria siriana, che ha di fatto aperto la discussione sull’immigrazione in Danimarca, le preoccupazioni di cittadini e del governo del paese nordico si sono concentrate sulla possibilità del sistema di welfare di reggere l’urto di migliaia di persone che di fatto possono beneficiare dei vantaggi sociali dei danesi ma che non hanno la possibilità di contribuire allo stesso modo, e che quindi rappresentano una bomba economica che potrebbe abbattersi sulla spesa pubblica.

Immigrazione e “valori danesi”

L’ultimo – e forse più importante –   aspetto dell’approccio danese al problema delle periferie, è quello culturale. Poiché la Danimarca è stata fino a tempi recentissimi una nazione estremamente omogenea dal punto di vista etnico e culturale, l’idea di un’identità nazionale danese è estremamente chiara e condivisa dalla popolazione. A differenza di ciò che avviene in altri stati europei come Francia e Regno Unito, in cui infuria il dibattito tra sostenitori dell’integrazione e dell’assimilazione culturale, la Danimarca sembra non avere dubbi. 

Essere danesi significa necessariamente aver interiorizzato determinati valori, e, per evitare la nascita delle temute società parallele, è necessario che questi “valori danesi” vengano insegnati ai bambini fin dalla prima infanzia. 

Questo è uno dei punti più contrastati dalle associazioni per la difesa dei diritti umani, in quanto in Danimarca non esiste l’obbligo di iscrivere i propri figli alla scuola dell’infanzia o al nido, obbligo che invece viene introdotto per le famiglie residenti nei quartieri in questione

Una delle critiche più diffuse rivolte alla politica danese per eliminare i ghetti è che essa nasconda semplicemente la volontà di realizzare speculazioni immobiliari, di fatto calmierando la componente più “popolare” della cittadinanza e aprendo al mercato immobiliare zone che fino ad ora erano destinate ad alloggi sociali, spingendo il cosiddetto processo di gentrification che, se da una parte consente ai quartieri degradati di rinascere, crea dall’altra un aumento incontrollato dei prezzi che spinge la popolazione meno abbiente a spostarsi in un nuovo ghetto. 

Per ora, malgrado le critiche, il governo danese continua la sua battaglia, ma nessuno può dire se la durezza del “Ghetto Package” creerà un società più armoniosa e sicura o se avrà il solo esito di spostare i ghetti altrove e accrescere le disuguaglianze. 

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