La forza di Dante
È forte il timore che, passato il centenario e il Dantedì, anche il Sommo Poeta torni esule, solitario e ramingo nelle aule scolastiche. O sia riesumato solo come evento di spettacolo per qualche “pubblica lettura”.
È forte il timore che, passato il centenario e il Dantedì, anche il Sommo Poeta torni esule, solitario e ramingo nelle aule scolastiche. O sia riesumato solo come evento di spettacolo per qualche “pubblica lettura”.
“Non è da meravigliare perciò come in un primo momento Dante pensasse a realizzare la sua profonda esigenza per mezzo di un’opera di scienza, onde l’idea del Convivio, presto abbandonata, tanto una pura opera dottrinale parve a Dante inadeguata a soddisfare la sua brama di spirituale armonia. Accanto ai problemi teorici, vivevano in Dante, come sappiamo, più intensamente, quelli della vita morale; ed egli si vedeva come creatura smarrita senza luce e senza speranza, travolto dalle tempeste della vita, sicché il ritorno a Beatrice doveva essere sì un’opera di redenzione, ma insieme espressione di tutto il travaglio di dolore donde essa era uscita [1]”.
Mi piace iniziare questo intervento con una citazione che per me rimane un faro di riferimento fin dai banchi del mio liceo. Correvano gli anni Settanta, anzi iniziavano, quando al Liceo “Giovanni Cotta” di Legnago era in adozione, come manuale di storia della letteratura italiana, il testo di Mario Sansone, opera di non facile lettura per gli studenti e, possiamo dirlo, nemmeno per i docenti.
Eravamo in prima liceo (nella vecchia numerazione del percorso liceale classico la prima corrispondeva al terzo anno del quinquennio) all’inizio dell’anno, ancora con le labbra bagnate dal latte ginnasiale (ginnasio si chiamava il biennio del classico, distinto in quarta e quinta ginnasio: un giorno torneremo su questa apparentemente bizzarra numerazione) e ci trovavamo ad affrontare Dante, spiegato da quella formidabile tessitura linguistica. Un sesto grado superiore dello studio, per dei ragazzini. Ma quella frase mi colpì in modo così profondo che ancora adesso a cinquant’anni di distanza la ricordo e l’ho recuperata all’istante, esattamente là dove si trovava nel manuale.
L’idea sconvolgente era che non bastasse a Dante “una pura opera dottrinale” per esprimere il mondo che aveva dentro di sé. Egli aveva invece bisogno di “un’opera di redenzione”, che insieme fosse anche “espressione di tutto il travaglio di dolore” che lo aveva tormentato.
In poche righe Mario Sansone aveva come marchiato a fuoco il mio pensiero, tanto che per tutti gli anni successivi quella frase fu un punto di riferimento assoluto per comprendere non solo Dante e la sua opera, ma lo stesso bisogno di poesia della natura umana. Non a tutti noi, adolescenti travolti dalle prime passioni e soggetti alle inquietudini di un post-Sessantotto travagliato e provinciale, risultò chiara quella strepitosa analisi. Anzi. Diciamo pure che non la capì quasi nessuno.
Il bisogno di poesia si andava manifestando in quegli anni (dalla metà dei Sessanta alla metà dei Settanta) in mille altre forme: dalle canzoni di Joan Baez e di Bob Dylan alle nuove forme dell’onda dei nostri cantautori, quelli più leggeri (si fa per dire) come Paoli ed Endrigo, quelli incompresi come Tenco, e infine quelli più impegnati come Guccini, De André, Lauzi, Jannacci, Gaber. Erano gli anni di Dio è morto, di Auschwitz e di Bang Bang, dei Nomadi e dell’Equipe 84, per non parlar dei Beatles e dei Rolling Stones, ormai stelle di prima grandezza, già peraltro avviate a un precoce tramonto.
Si (ri)scopriva Spoon River, tornavano di moda i vangeli apocrifi, si brandiva un libretto di colore rosso e ci si commuoveva al flauto di pan degli Inti-Illimani. Per Dante non c’era molto spazio. Anzi, la poesia vera non sembrava più abitare nelle aule scolastiche. Dante, Foscolo, Manzoni, per non parlar degli altri venuti prima: tutti in soffitta.
Circolavano in quegli anni fra studenti contestatori e docenti dediti alla rivoluzione (soprattutto negli ambienti più colti) le citazioni da uno sconosciuto e dimenticato poligrafo settecentesco, tale Saverio Bettinelli, gesuita, che così, sbrigativamente (alla Conte Attilio), liquidava i classici in una sua rinomata e rimarchevole opera che “sarebbe rimasta, insieme con l’altre sue nobili sorelle, come codice di primaria autorità presso ai posteri: profezia, – direbbe Manzoni – che ognun può vedere come si sia avverata”.
Questo gioiello della critica letteraria del Settecento, intitolata Dieci Lettere di Publio Virgilio Marone, presentava un nuovo canone della modernità letteraria, definito “Scelta e Riforma de’ Poeti Italiani per comodo della vita e della Poesia”, in base al quale si affermava senza paura:
“Tutti gli antichi, o contemporanei di Dante, si consegnino alla Crusca, o al fuoco. Dante sia posto tra’ libri d’Erudizione, siccome un codice, e monumento d’antichità; lasciando alla Poesia que’ cinque canti incirca di pezzi insieme raccolti, che gli antichi stimarono degni nella lettera terza [2]”.
Questa Lettera terza, poi, si immaginava rivolta agli accademici contemporanei, nella quale gli antichi poeti, ospiti dei Campi Elisi, concedono a Virgilio di compiere quella scelta antologica. Il quale Virgilio, (e si valuti bene di chi si tratta!) conclude: “Se non che vennemi in mente di propor loro in buon punto un consiglio: ciò fu di estrarre i migliori pezzi di Dante, che a loro stessi avean recato cotanto diletto, e raccoglierli insieme in un piccol volume di tre o quattro canti veramente poetici, e questi ordinare come si può, e i versi poi, che non potrebbero ad altri legarsi, porli da sé a guisa di sentenze, siccome d’Afranio e di Pacuvio fecer gli antichi. A questa condizione accettarono, tutti i Poeti, Dante per loro compagno, e gli accordarono il privilegio dell’immortalità, che loro è concessa dal fato.”
Nell’anno settecentesimo dalla morte di Dante e della collettiva infatuazione mediatica è bene ricordare che le cose non sono sempre andate così come si crede. Ci sono stati anni nel recente e nel lontano passato in cui Dante è stato dimenticato, contestato, non compreso. In fondo Bettinelli anticipava il giudizio di un altro grande filosofo del Novecento che aveva distinto nella Divina Commedia la struttura dalla poesia, con un tragico errore di prospettiva che separava sfera concettuale e sfera emozionale, contrapponendole come se si trattasse, in un trattato, appunto, di ragione discorsiva e ragione intuitiva.
Il timore che, passata la festa, anche Dante torni esule solitario e ramingo nelle aule scolastiche o sia riesumato solo come evento di spettacolo per qualche “pubblica lettura” è forte. Non ci sarebbe nessuna meraviglia. Ridurre Dante a un genere di consumo è un rischio che assessori alla cultura, promoter teatrali, gestori di sodalizi di vario tipo e coloritura, non si peritano di correre, pur di salire sulla ribalta e stare vicino al carro del patrono nella processione della festa.
Ma Dante “sa di sale” e la crosta “aspra e forte” della sua lingua non permette che si giochi a far sul serio. Diciamolo chiaramente, Dante è difficile e per avvicinarlo occorrono persone che ne hanno macinato e bevuto a lenti sorsi l’inaudita eccelsa complessità. Per citare Tucidide, dobbiamo pensare a Dante come a “un bene solido per sempre” e maturare una volta per tutte la convinzione profonda che spetti soprattutto alla scuola rispettarne il valore e trasmetterlo in modo vitale ai giovani. E qui la responsabilità della scuola, e quindi, a monte, dell’università, si fa ardua, alta e grave. Il perché è presto detto e per questo torniamo a Sansone.
Dante sente che solo la poesia può infiammare gli animi, creare immaginario collettivo, comunicare le esperienza della vita di una persona storicamente ben individuata come archetipo delle esperienze comuni.
Dante sentiva il bisogno assoluto di comunicare, di esprimere la sua interiorità, di coinvolgere i contemporanei in un’avventura intellettuale che rapisse i cuori e li trascinasse in un’esperienza comune.
La sua dottrina e la sua cultura sono vaste, approfondite, elaborate e complesse. L’idea del Convivio è quanto di più “democratico” (parola rischiosa, ma non me ne viene un’altra di più appropriata) si possa concepire all’inizio del Trecento. Il Convivio doveva essere un’opera in lingua volgare, quindi comprensibile a un pubblico ben più vasto di quello che conosceva il latino per mestiere e studio, una collana di trattati educativi che doveva elevare gli spiriti, divulgare la cultura, diffondere il sapere in una prospettiva di innalzamento delle coscienze e delle anime.
Tuttavia lui sente che non gli basta il sapere in sé, sente che è l’immagine, non il concetto, la via per raggiungere le menti e trascinarle. Egli non ha i pennelli di Giotto o lo scalpello di Andrea Pisano, ha invece uno strumento ancor più potente, leggero e alato, ma penetrante e sconvolgente, se ben utilizzato: la lingua, in particolare la lingua parlata dai suoi concittadini e in certa misura già nobilitata da una tradizione letteraria che da lui sarà ripresa, rimodellata e rigenerata. Con il volgare – che significa “lingua del volgo” senza accezione dispregiativa nel senso di “lingua del popolo” – la lingua di tutti, il nuovo plastico e duttile strumento espressivo delle genti toscane, Dante costruirà la più grande cattedrale linguistica di tutti i tempi. Quella lingua, nuova e priva di tradizione, diventa con Dante la Terra dell’Uomo, lo spazio nel quale egli ricreerà l’umanità nuova, che alla luce del pensiero che ha formato e animato il poeta, ripercorrerà la sua stessa genesi e ritroverà il significato profondo dell’Universo, grazie alla Fede e alle dottrine antiche che quella prospettiva avevano in certa maniera profeticamente delineato.
Quella è la grandezza della Commedia. Là, in quella lingua, la vastità di un’anima di rara sensibilità e la potenza di una fantasia senza limiti troveranno gli spazi infiniti in cui si riverserà la vena inesauribile di una creatività plastica e concretissima. In quella lingua e grazie a quella lingua verrà comunicata non una mistica esperienza individuale, assimilabile a tanti testi medievali denominati Itinerarium mentis in Deum, ma sarà descritto un cammino difficile e arduo attraverso le esperienze del male massimo, della più profonda contrizione e della infinita gioia, le più estreme concepibili dalla mente umana. E qui sta l’ardua e talvolta insopportabile durezza dell’esperienza estetica costituita dall’incontro con la Divina Commedia.
Qui la letteratura non è divertissement, non è gioco, non è illusione, non è distrazione, consumo, imbonimento finalizzato alla vendita, qui la letteratura è amore e morte, strazio e vendetta, abbruttimento e rinascita, massacro e risurrezione, indescrivibile complessità ed enigmatica evidenza, suicidio trasfigurato in libertà autentica e scomunica fatta perdono.
E quindi: finezza di immagini e rarità di concetti, preghiera sublime e astronomia come sussidio alla teologia, sole e stelle trattati come elementi della vita ordinaria, sublimità di canti e di musiche adottati come elogio di povertà e sacrificio. E ancora: incontro con l’Unità dell’Essere che nell’universo si squaderna, si disgrega come i fascicoli di un libro, libro che lassù, nel punto più alto delle sfere celesti, si fa metafora dell’infinita perfezione e dell’incomprensibile semplicità, che manifestandosi nel “nocciolo del plasma mistico della fusione nucleare emotiva finale”, lascia trasparire i lineamenti di un Volto Umano, come immagine stessa di Dio.
E alla fine di tutto il ricorso alla fisica, la più concreta delle discipline, per un’immagine che deve attestare l’unità dello spirito del Pellegrino con la “Gloria di Colui che tutto move”: il movimento perfetto della velocità angolare come espressione del volgersi di “desiderio e volontà” di Dante, divenuto, in unanime sintonia con l’Armonia Celeste, docile fibra dell’Amore “che move il sole e l’altre stelle”.
Il tutto come vera, reale, persino carnale esperienza; come autentica dimensione dell’Umano che raggiunge la perfezione, non come esercizio puramente intellettuale, ma come racconto di una esperienza vera, che a tutti coloro che sapranno far tesoro della testimonianza del Poeta potrà accadere di compiere.
Questo è Dante e questo deve consegnare alle future generazioni la Scuola. Poi chi amerà la letteratura studierà anche i dettagli: se e quando e con chi Dante sia stato a Verona, chi sia il Veltro, con chi e perché Dante abbia discusso la Quaestio, se in quel punto del tal canto era in polemica con Platone e difendeva Aristotele e come abbia potuto mettere Catone in Purgatorio e lasciare Virgilio nel Limbo, etc. etc. Ma agli uomini del XXI secolo la scuola dovrà consegnare l’esperienza di una letteratura che non è solo consumo, mondanità e gioco e tanto meno servile accattonaggio presso mecenati bisognosi di pubblicità e consenso. Ma la letteratura come sfida dell’anima, espressione sincera e libera del pensiero, luogo di incontro fra grandi spiriti di tempi e luoghi diversi.
La Poesia con Dante rivela la sua natura profonda, la sua dimensione di autentica e indefettibile caratteristica del cuore umano e si manifesta come l’eco delle esperienze della vita nelle stanze dell’anima. C’è chi ha un’anima grande e anche con piccole esperienze riesce ad elaborare echi meravigliosi, come Pascoli. C’è chi viaggia, vive avventure, compie esperienze estreme, come molti turisti, ma alla fine non ne ricava se non adrenalina.
E ci sono infine gli spiriti grandi, che hanno stanze dell’anima vaste come gli atri di una cattedrale e compiono esperienze molteplici, varie e complesse. E questi sono i grandissimi poeti dei quali non possiamo fare a meno.
Se poi queste straordinarie creature parlano una lingua che “atterra e suscita, che affanna e che consola”, ecco che la loro lingua diventa la nostra lingua, le loro esperienze sono le nostre esperienze, la loro anima è la nostra anima, perché gli echi della loro vita nel loro tempo e nel loro spazio, superano e vincono di “mille secoli il silenzio”.
Così Dante porterà ancora con sé verso l’esperienza del sublime tutti coloro che hanno ancora “intelletto d’amore” e sentono di non esser stati fatti “a viver come bruti, ma per seguir virtute e canoscenza”. Al di là e a prescindere dagli anniversari di turno.
[1] Mario Sansone, Storia della Letteratura Italiana, Principato, Milano 19733 pp.62 sg.
[2] Saverio Bettinelli, Dieci Lettere di Publio Virgilio Marone, Lettera nona.