Siamo in Lidia alla corte di Creso, sovrano ancor oggi noto per la sua proverbiale ricchezza. Creso si mostrò al saggio Solone in tutto lo splendore della sua umana gloria e gli chiese se mai avesse visto qualcuno più felice di lui. Le risposte di Solone stupirono Creso al punto che egli reagì con queste parole:

«῏Ω ξεῖνε ’Αθηναῖε, ἡ δ’ ἡμετέρη εὐδαιμονίη οὕτω τοι ἀπέρριπται ἐς τὸ μηδέν, ὥστε οὐδὲ ἰδιωτέων ἀνδρῶν ἀξίους ἡμέας ἐποίησας;» ‘Ο δὲ εἶπε· «῏Ω Κροῖσε, ἐπιστάμενόν με τὸ θεῖον πᾶν ἐὸν ϕθονερόν τε καὶ ταραχῶδες ἐπειρωτᾷς ἀνθρωπηίων πρηγμάτων πέρι. ’Εν γὰρ τῷ μακρῷ χρόνῳ πολλὰ μὲν ἔστι ἰδεῖν τὰ μή τις ἐθέλει, πολλὰ δὲ καὶ παθεῖν.» (Erodoto I, 32)

«O ospite ateniese, la nostra felicità è così da te disprezzata e valutata alla stregua del nulla, che non ci hai considerato all’altezza nemmeno di privati cittadini?» E lui (Solone) rispose: «O Creso, hai chiesto a me un parere sulle questioni umane, a me che so bene come la divinità sia assolutamente invidiosa e propensa a sconvolgerle. In un ampio arco di tempo infatti è possibile vedere ciò che uno non vorrebbe mai vedere e anche molto soffrire».

Solone, non rimase più a lungo presso Creso, che volentieri lo licenziò. Ma Erodoto commenta qualche passo più oltre la citazione sopra riportata: 

Μετὰ δὲ Σόλωνα οἰχόμενον ἔλαβε ἐκ θεοῦ νέμεσις μεγάλη Κροῖσον, ὡς εἰκάσαι, ὅτι ἐνόμισε ἑωυτὸν εἶναι ἀνθρώπων ἁπάντων ὀλβιώτατον. (Erodoto I, 34)

Dopo la partenza di Solone, Creso subì una terribile vendetta, a ben considerare, dalla divinità, perché aveva pensato di essere il più fortunato e prospero degli uomini

Creso di Lidia rappresentato in un vaso conservato al Mouseo Louvre di Parigi

E dunque Erodoto stabilisce con questa affermazione un collegamento stretto fra la presunzione di Creso, l’invidia della divinità, e la punizione che lo colpisce, la νέμεσις, nemesis: concetto di difficile definizione che sta a metà fra “vendetta”, “punizione”, tracciando una inquietante linea di coerenza, confermata successivamente dalla riflessione dello storico in un’altra occasione.

Ci troviamo sempre in Asia Minore, alla vigilia della seconda Guerra Persiana intorno al 480 a. C.  Il Gran Re di Persia Serse passa in rassegna le truppe al momento di partire per la conquista della Grecia. Andiamo al testo:

‘Ως δὲ ὥρα πάντα μὲν τὸν ‘Ελλήσποντον ὑπὸ τῶν νεῶν ἀποκεκρυμμένον, πάσας δὲ τὰς ἀκτὰς καὶ τὰ ’Αβυδηνῶν πεδία ἐπίπλεα ἀνθρώπων, ἐνθαῦτα ὁ Ξέρξης ἑωυτὸν ἐμακάρισε, μετὰ δὲ τοῦτο ἐδάκρυσε. Μαθὼν δέ μιν ’Αρτάβανος (…) οὗτος ὡνὴρ ϕρασθεὶς Ξέρξην δακρύσαντα εἴρετο τάδε· «῏Ω βασιλεῦ, ὡς πολλὸν ἀλλήλων κεχωρισμένα ἐργάσαο νῦν τε καὶ ὀλίγῳ πρότερον· μακαρίσας γὰρ σεωυτὸν δακρύεις.» ‘Ο δὲ εἶπε· «’Εσῆλθε γάρ με λογισάμενον κατοικτῖραι ὡς βραχὺς εἴη ὁ πᾶς ἀνθρώπινος βίος, εἰ τούτων γε ἐόντων τοσούτων οὐδεὶς ἐς ἑκατοστὸν ἔτος περιέσται.» ‘Ο δὲ ἀμείβετο λέγων· (…) ’Εν γὰρ οὕτω βραχέϊ βίῳ οὐδεὶς οὕτω ἄνθρωπος ἐὼν εὐδαίμων πέϕυκε, οὔτε τούτων οὔτε τῶν ἄλλων, τῷ οὐ παραστήσεται πολλάκις καὶ οὐκὶ ἅπαξ τεθνάναι βούλεσθαι μᾶλλον ἢ ζώειν. (…) Οὕτω ὁ μὲν θάνατος μοχθηρῆς ἐούσης τῆς ζόης καταϕυγὴ αἱρετωτάτη τῷ ἀνθρώπῳ γέγονε· ὁ δὲ θεὸς γλυκὺν γεύσας τὸν αἰῶνα ϕθονερὸς ἐν αὐτῷ εὑρίσκεται ἐών.» (Erodoto VII, 45 sg.)

Nel vedere l’intero Ellesponto coperto dalle navi e tutte le coste e le pianure di Abido piene di uomini, a quel punto Serse ne fu compiaciuto e felice, ma subito dopo scoppiò in pianto. Se ne accorse Artabano, suo zio, (…) Questi, avendo visto il pianto di Serse, gli disse: “Mio re, che reazioni diverse hai avuto, ora e poco fa: dopo esserti ritenuto beato, adesso piangi”. E Serse rispose: “Mi ha preso un senso di pietà, mentre riflettevo quanto sia breve la vita di un uomo, se nessuno di tutti costoro, che sono così numerosi, sarà ancora vivo fra cento anni!”. E di nuovo Artabano: (…) “Non c’è uomo, né fra costoro né fra tutti gli altri, che in un arco così breve di tempo, come quello della vita, sia stato tanto felice da non anteporre, ripetutamente, e non di certo una volta soltanto, la morte alla vita. (…)  Così, la morte, essendo la vita così dura, è divenuta per l’uomo un rifugio assolutamente preferibile; e il dio, dopo averci offerto un lungo periodo di vita dolce, proprio allora, si manifesta invidioso“.

In questo passo Artabano sottolinea come inevitabilmente al godimento di esperienze piacevoli e gratificanti segua il colpo generato dallo φθόνος θεῶν, phthónos theôn “l’invidia degli dei” e sia sempre in agguato il meccanismo spietato della νέμεσις nemesis. La vita è piena di dolori: se quegli uomini che riempiono un’intera regione troveranno in quella spedizione la morte, in fondo avranno la sorte di vedersi risparmiati anche molti dolori. Ma Serse, implicitamente è avvertito. Anzi lo sente dentro di sé, il rischio. Prima ἑωυτὸν ἐμακάρισε “chiamò beato se stesso”, ma poi scoppiò a piangere ed Erodoto non perde l’occasione di sottolineare che un eccesso di gioia porta inevitabilmente alla rovina. 

E dunque la creatura umana deve tracciare il suo limite e dentro quello mantenersi. In tal senso solo al termine della vita è possibile verificare la felicità di qualcuno. Tutti coloro che precipitosamente si considerano prosperi e felici, rischiano di incappare nell’invidia divina e nella conseguente punizione. Ὕβρις hybris, φθόνος phthònos, νέμεσις nemesis: ecco dunque la sequenza drammatica nella quale rimane intrappolato chi non sa conoscere se stesso e la propria natura e si abbandona agli eccessi di un vanto che gli dei non sopportano.

(segue)

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