L’11 marzo 2011 alle 14.46 un’onda marina (tsunami) provocata da un forte terremoto sommerse le coste orientali dell’isola di Honshu allagando la centrale nucleare di Fukushima. Gli impianti della centrale, con i relativi sistemi di sicurezza, andarono fuori servizio, i noccioli dei tre reattori surriscaldati da una reazione nucleare incontrollata si fusero e una enorme nuvola radioattiva si liberò nell’aria. Circa 16.000 furono i morti, 3000 i dispersi, più di 500.000 gli sfollati dai paesi rasi al suolo dalle acque dell’oceano o avvolti nell’aria divenuta pericolosamente radioattiva. La decontaminazione della regione richiederà decenni e nel decimo anniversario a Fukushima ben 337 chilometri quadrati restano tuttora inaccessibili ai vecchi residenti.

Ben pochi ricordano che, in quel fatale 11 marzo di dieci anni fa, gli incidenti nucleari avrebbero potuto essere due: la salvezza della vicina centrale di Onagawa, anch’essa colpita dallo stesso terremoto, è stata dovuta  all’unico sistema di sicurezza, dei cinque che erano installati, che funzionò.

Un disastro annunciato. L’arcipelago giapponese è posizionato in una delle zone più instabili del mondo, dove terremoti e tsunami sono frequenti e periodici eventi catastrofici rappresentano una certezza. Una simile fragilità non ha impedito alla nazione del Sol Levante di dotarsi di ben 54 reattori nucleari, spesso collocati sulle rive dell’oceano.

Il fatto che la causa dell’esplosione dei reattori di Fukushima, a differenza degli storici incidenti a Three Miles Island (Usa, 1979) e Cernobyl (Urss, 1986), causati da una cattiva gestione degli impianti, fosse poi da ricercare nella imprevedibilità dei fenomeni naturali, costituì un’importante ipoteca sullo sviluppo della produzione nucleare di energia nel mondo. Ad oggi non è ancora disponibile una tecnologia che possa gestire un rischio così grande provocato da eventi naturali imprevedibili.

Nelle settimane che seguirono l’11 marzo 2011, il governo giapponese e vari partiti politici promisero alla comunità internazionale che il Giappone avrebbe spento per sempre le sue centrali nucleari e riconvertito a sicurezza e sostenibilità il proprio sistema energetico. A dieci anni di distanza su 54 reattori allora attivi 33, a immediato rischio collasso, furono spenti subito, ma nove di questi ultimi però furono successivamente riattivati. A tutt’oggi un terzo del fabbisogno energetico nazionale giapponese è ancora prodotto dalle centrali atomiche e nessuno promette più lo smantellamento degli impianti collocati in epicentri sismici o ad un passo dall’oceano. Ricordare Fukushima oggi, dunque, vuol dire focalizzare ancora una volta l’attenzione di tutti sulla riconversione degli impianti nucleari di tutto il mondo e non solo su quelli giapponesi.

La centrale di Fukushima subito dopo lo tsunami che l’ha distrutta – 11 marzo 2011

Noi europei, impegnati in una transizione che da qualche tempo definiamo ecologica e che comprende una radicale trasformazione del sistema energetico, non siamo esenti dall’affrontare questo problema. Non lo è neppure l’Italia che nel 1986 si è dichiarata paese denuclearizzato. L’Europa possiede tuttora un importante parco di centrali nucleari funzionante, non scevro di problematiche di sicurezza.

In Francia, ad esempio, esistono 32 reattori nucleari di proprietà dell’EDF (Électricité de France) che hanno iniziato la produzione commerciale tra la fine degli anni ’70 e gli inizi degli anni ’80, progettati per un’attività di 40 anni. Molti di loro hanno appena terminato la quarta revisione decennale periodica e l’ASN (Autorité de Sûreté Nucléaire) delegata alla sicurezza degli impianti nucleari francesi, spiega che un’eventuale estensione del periodo di vita delle centrali, presuppone nuovi e aggiornati studi di progettazione, oltre che la sostituzione di alcuni o tutti i materiali utilizzati per la costruzione delle stesse. La Francia deve decidere quindi se fermare quelle centrali vecchie e obsolete o mantenerle operative con un importante revamping. Che il sistema nucleare francese mostrasse qualche falla, peraltro, si è avuta contezza recentemente quando alcune centrali si sono dovute improvvisamente fermare per manutenzione straordinaria. In quel caso l’Italia ha dovuto supplire alla loro mancata produzione esportando energia verso la Francia.

Alcune delle centrali francesi più vecchie sono fra l’altro localizzate  a poche decine di chilometri dalla frontiera italiana; nello specifico le centrali nucleari di Bugey, Cruas e Tricastin distano rispettivamente a 120, 160 e 170 km dai confini italiani. Piemonte e Valle D’Aosta potrebbero perciò essere direttamente vittime di un importante impatto transfrontaliero pregiudizievole per l’ambiente senza aver avuto un ruolo nelle decisioni.

Possiamo tuttavia contare sul fatto che il 25 febbraio 1991 i Paesi europei a Espoo (Finlandia) hanno adottato una  convenzione sulla valutazione dell’impatto ambientale che coinvolge più nazioni (Convenzione di Espoo) e in questo caso la Francia sarebbe obbligata a concordare con l’Italia la decisione sul futuro delle sue centrali nucleari.

Ricordare Fukushima, dunque, vuol dire pensare che il problema della sicurezza nucleare persiste e ci tocca ancora da vicino e significa anche chiedere al neo ministro della Transizione Ecologica Roberto Cingolani di intervenire, coinvolgendo la Commissione Europea, per avviare la consultazione sull’impatto ambientale delle centrali nucleari europee e decidere insieme sul loro futuro.

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