I sommersi dello sport
Storie di sportivi. Uomini, donne e squadre. Perché la Shoah non ha risparmiato nemmeno loro.
Storie di sportivi. Uomini, donne e squadre. Perché la Shoah non ha risparmiato nemmeno loro.
Passata abbondantemente la metà di gennaio, ci dirigiamo verso gli ultimi giorni del mese e già ora si comincia a sentirne il profumo. Lo avvertite anche voi? È quel misto di revisionismo storico e ignoranza che di solito spurga fuori attorno al 27, il Giorno della Memoria. Magari quest’anno, complici la pandemia e la crisi di Governo, le polemiche saranno leggermente più sommesse, ma arriveranno, statene certi. Per cui, prendiamoci per tempo e, invece dell’ennesima replica de La vita è bella, analizziamo altre storie, dove Shoah fa rima con sport. E non sono filastrocche allegre.
La squadra di Kafka – Austria, anni ’20, il calcio muove i primi passi e getta le basi per il decennio successivo, quando Sindelar e il Wunderteam scriveranno pagine di storia. A Vienna c’è un club che scende in campo con una grande “H” cucita sul petto e, di fianco, la stella di Davide. È l’Hakoah Wien (הכח, secondo l’alfabeto ebraico, termine che significa “forza”), un circolo sportivo ebraico che compete nel calcio e in varie altre discipline.
L’Hakoah è il primo club dell’Europa continentale a sconfiggere una squadra inglese in terra d’Albione: un 5 a 1 contro le riserve del West Ham. I biancazzurri di Vienna in mezzo al campo schierano quell’eternauta del calcio di nome Bela Guttman, che qualche anno più tardi insegnerà calcio in Italia e maledirà il Benfica. Sugli spalti, invece, Franz Kafka è il tifoso d’eccezione. Nel 1925 (foto di copertina) L’Hakoah vince il primo campionato austriaco professionista, si esibirà negli Usa e il club arriverà ad avere quasi cinquemila iscritti.
Poi arriva il 1938, l’Anschluss. Il club viene chiuso e la federazione viennese confisca all’Hakoah i trofei vinti fino ad allora. I calciatori vengono caricati su quei treni di sola andata per il lager di Theresienstadt. L’incubo di Gregor Samsa che prende vita, uomini in scarafaggi. Di loro rimane qualche immagine, su un campo di calcio, mentre affrontano una formazione delle SS. Dopo la guerra hanno provato a ricostruire il club, che esiste tuttora come polisportiva; la squadra di calcio gioca nelle basse leghe dilettanti, col nome di Macccabi Wien.
Liga Terezin – Forse la storia più famosa, quella della vecchia fortezza asburgica nel cuore della Boemia dove finiscono i giocatori dell’Hakoah. Gli internati per un paio di anni sono riusciti anche ad organizzarci una sorta di campionato di calcio, la cosiddetta “Liga Terezin”. Le squadre? In base al reparto: operai contro cuochi, magazzinieri contro macellai, e così via. Sette contro sette, ai vincitori andava una razione di cibo più abbondante.
Il nazismo ci ha anche fatto un documentario su quelle partite, per raccontare quanto bello fosse vivere e giocare a Terezin. Un secondo film, di recente, ha raccontato la verità. Dove il pallone è l’ultimo appiglio prima del baratro. «Il calcio era questione di piacere, e ci serviva un po’ di piacere nelle nostre vite disperate», racconta nel film Tomas Brod, entrato a Terezin a 13 anni. «Era importante non perdere la fiducia in noi stessi e la nostra dignità. Era pazzesco, ma era la realtà».
L’ultima farfalla – Elka de Levie è morta ad Amsterdam a quasi 75 anni d’età. Ginnasta olandese di origine ebraica, alle Olimpiadi del 1928 raggiunge il trionfo più bello: medaglia d’oro nella ginnastica a squadre. Già, squadre. L’allenatore Gerrit Kleerekoper e cinque delle 12 atlete sono di origine ebraica: Estella Agsteribbe, Helena Nordheim, Anna Polak, Judikje Simons ed Elka de Levie, appunto, l’unica a sopravvivere allo sterminio dell’Olocausto. Lo fa fuggendo assieme alle figlie, vivendo in clandestinità fino al termine della guerra. Solo un battito d’ali un po’ più in là.
Faccia a terra – Nel 1939 Leone Efrati è considerato uno dei migliori 10 pesi piuma al mondo. Boxa bene, sul ring fa mulinare le braccia, ma la sua carriera finisce lì. Stroncata dalle Leggi Razziali. Leletto, il soprannome di Efrati, è di origine ebraica e non evita il rastrellamento . Viene deportato insieme al fratello; Fossoli, Auschwitz e poi Ebensee (Mauthausen). Gli ultimi match li ha disputati nel piazzale del campo di concentramento, per il divertimento e le scommesse dei soldati tedeschi. Il premio, anche qui, un pezzo di pane.
Per ogni pugile, poi, arriva il giorno dell’ultimo KO. Quello di Efrati giunge quando scopre che il fratello è stato pestato a sangue da uno dei kapò. La sua reazione violenta scatena le guardie, che lo riducono a terra moribondo. E lo sappiamo tutti cosa succede in un lager quando non hai la forza di alzarti durate l’appello. Muore il 17 aprile 1945 in un forno crematorio, venti giorni prima della liberazione del campo da parte degli americani.
Elogio dell’immobilismo – Siccome il destino ha un metodo tutto suo per tracciare le linee della storia, oltre ai sommersi, è giusto parlare anche dei salvati. Come Jaap Van Praag, presidente dell’Ajax di Cruijff, delle tre Coppe dei Campioni e dell’avvento del calcio totale, la cui storia è perfettamente descritta da Simon Kuper nel suo Ajax, la squadra del ghetto (assieme a tante altre vicende legate a quella che, prima della Seconda Guerra Mondiale, era la squadra del quartiere e della comunità ebraica della capitale olandese).
Van Praag riesce a sfuggire ai rastrellamenti, nascondendosi nel retrobottega di un negozio di fotografia per due anni. Trascorre le ore d’apertura seduto immobile su una sedia al piano superiore del negozio. Il titolare non sospetterà mai nulla. Non so voi, ma io non riesco a pensare a nulla di più malinconicamente ironico dell’immobilismo come unica via di salvezza per uno dei fondatori di una dinastia calcistica che, sul campo, avrebbe raggiunto la perfezione del movimento sincronizzato.
BONUS TRACK – Siccome lo so che salteranno fuori i fenomeni del “ma allora anche i comunisti nei Gulag hanno fatto più morti”. Don’t worry, di storie ne abbiamo anche lì. Tipo quella dei fratelli Starostin, fondatori dello Spartak Mosca, e di Eduard Streltsov, il Pelè russo. Arriveranno anche quelle. Perché meritano di essere raccontate, di certo non per compensazione.