San Patrignano e la forza della possibilità
Camillo Smacchia, responsabile del Sert di Verona, si racconta attraverso le immagini di una vita che scorre e che l'ha portato a vivere l'attuale importante esperienza.
Camillo Smacchia, responsabile del Sert di Verona, si racconta attraverso le immagini di una vita che scorre e che l'ha portato a vivere l'attuale importante esperienza.
La Collina, come canta De Andrè, è il luogo in cui le persone “inseguono la vita”. Stavolta però non è un dramma di Edgar Lee Masters. È una storia vera. Una tessitura di disperazione e speranza in un pendolo di rassegnazione e slancio per il futuro. La Collina è l’etichetta lenitiva che gli hanno appiccicato i suoi ospiti, quasi a ridurne l’asprezza e di vaga eco dantesco come se, la conditio sine qua non per la rinascita, fosse la fatica. Chi non l’ha esperita, in ogni capillare contraddizione, la identifica semplicemente con il toponimo di San Patrignano.
Lì dentro, mentre cerchi te stesso, le giornate infinite diventano anni quando, senza accorgertene, la tua vita si intreccia con la storia di mille altre. Una di queste racconta il complesso ricamo che dall’adolescenza conduce all’età adulta e ha come protagonista un giovane veronese, dal carattere curioso e dall’appeal civettuolo. Vede sprofondare i suoi amici in una cloaca e, lacerato nell’impotenza, decidere di reagire per salvare la vita a coloro che ama: diventa volontario a San Patrignano poi si laurea in medicina; vola in Africa e in Kosovo in seno a missioni umanitarie. Torna in Italia e comincia la sua carriera fino a diventare, oggi, capo del Sert di Verona. Questa è la cronistoria, sbocconcellata ma non edulcorata, di Camillo Smacchia.
«Ero un giovane come tanti altri quando, tra gli anni ‘60-’70, la droga irrompe nel Paese come novità assoluta. Nessuno sa niente ed è assente ogni barlume di cultura a riguardo. Come tutti i ventenni, ho fame di sperimentare sentendomi onnipotente. La novità nella sregolatezza assume un valore estetico causando una sbornia collettiva. È un periodo fertile di ribellione in cui contravvenire a regole codificate costituisce la norma: per noi figli del ‘68 fumare uno spinello era uno sberleffo ai matusa. Chi arrivava a drogarsi non lo faceva perché lacerato da problemi di vita e situazioni familiari sdrucciolevoli ma perché era un modo per farsi notare, per dire “io ci sono”. Non ero uno stinco di santo ma sono riuscito a frenarmi: credo che il deterrente sia stato il senso di responsabilità verso mia madre. Ho perso mio padre all’età di 15 anni e non volevo infliggerle ulteriore dolore».
Camillo Smacchia cresce in una Verona crocevia dello spaccio tanto da guadagnarsi l’appellativo di Bangkok d’occidente. Al liceo il suo migliore amico è Antonio Boschini, oggi capo dell’equipe medica di San Patrignano ed ex tossicodipendente. La sua voce, i suoi occhi azzurri e quella gestualità accennata sono il filo conduttore della tanto chiacchierata serie tv SanPa prodotta da Netflix. «Antonio cade pesantemente nella tossicodipendenza. La sua famiglia è distrutta nel tentativo di sorreggere due figli divorati dall’eroina. Essere spettatore di dolore e sofferenza mi ha portato a prendere le distanze con estrema consapevolezza: non era la festa di farsi uno spinello insieme, era un vortice che ti risucchia. Il mercato era cambiato ed era arrivata in Italia una polvere biancastra; per la maggior parte dei ragazzi provarla è stato del tutto naturale. Non era una questione problematizzata com’è oggi, 50 anni fa il mondo era diverso ma l’esigenza di essere protagonisti e l’esuberanza giovanile sono le stesse: l’eroina concedeva questo lusso in un primo momento. Il passaggio storico dalle droghe leggere a quelle pesanti avviene in concomitanza con la mia scoperta della sessualità: attratto dalla prima relazione amorosa ho perso di vista gli amici che si erano abbandonati a queste mode. Quando ho recuperato, dopo qualche anno, il rapporto con loro li ho trovati stravolti e in una condizione neanche lontanamente invidiabile. Abitavano un mondo fuori da ogni parametro. Lì è scattato qualcosa: dentro di me ho preso le distanze da quelle pratiche ma, allo stesso tempo, mi sono avvicinato dal punto di vista umano, desideroso di aiutare».
I furti e le bugie, la ricerca spasmodica di una dose, svendersi per ricavare qualche spicciolo e la violenza di infilarsi un ago nelle vene perché a quel tempo l’eroina viene solo iniettata (oggi fumata). Arrivare allo stremo, senza uno scopo e senza una meta, abbandonarsi al flusso e al battere delle onde completamente smarriti nella tempesta. Poi, improvvisamente, decidere di cambiare e attraversare un’altra sofferenza, indicibile, che dovrebbe portarti a quello che il mondo intorno a te definisce ‘normale’. Questo è il paradigma di una tossicodipendenza a cui Camillo Smacchia ha assistito innumerevoli volte quando è diventato volontario e medico a San Patrignano.
«Mi fermavo in comunità diverse settimane, sono un diretto testimone perché quel posto l’ho vissuto sulla mia pelle. Aiutavo e passavo intere giornate sui libri perché si era formato un gruppo di studio: il più bravo era Antonio Boschini con il quale, intanto, avevo riallacciato un sincero rapporto di amicizia. Ricordo con emozione i momenti conviviali nel grande stanzone, le serate a guardare i film, le grandi chiacchierate e quel vitellone felliniano di Vincenzo Muccioli che mi chiamava a gran voce appena varcavo il cancello per poi stringermi in un abbraccio. Facevo la spola tra San Patrignano e Verona per accompagnare i ragazzi e per fornire assistenza medica. Un giorno, durante il turno di notte, vengo svegliato per un’emergenza, un ragazzo incrisi epilettica. L’indomani mattina, fatta colazione, sono ripartito per tornare a Verona. In autostrada, mentre andava la radio in sottofondo, ho perso il controllo dell’auto. Probabilmente per il sonno. Dieci giorni di rianimazione e diverse fratture, sono stato graziato. Dopo tanti mesi mi sono rimesso in sesto e ho ripreso il mio lavoro con grande slancio e motivazione».
Quando scoppia la malattia del secolo, il dottor Smacchia è in prima linea e le sue cure si concentrano sulla categoria maggiormente colpita dall’Aids, quella dei tossicodipendenti. «Ho ricominciato a studiare approfondendo le malattie infettive. Intanto proseguivo il mio lavoro in corsia fino a quando il rapporto con San Patrignano si è intensificato: ero il tramite di Vincenzo Muccioli e inviavo nella sua comunità i ragazzi di tutta la provincia di Verona fiaccati dalle dipendenze e afflitti dal virus dell’HIV. Un percorso umano e professionale che mi ha portato dove sono oggi, a capo del Sert. A 64 anni sono fiero della mia carriera e, guardandomi alle spalle, uno dei momenti decisivi della mia vita è stata proprio l’esperienza vissuta a San Patrignano. Nella mente si affollano ricordi che mi fanno sorridere e prendono sostanza emozioni di una malinconia per niente amara. Ripensando a quegli anni, sono profondamente grato e mi sento un privilegiato per aver avuto l’occasione di farne esperienza diretta. È stata una grande scuola di vita che mi ha insegnato l’umiltà, il donarsi agli altri e il valore profondo e insostituibile dell’aiuto. Ha frantumato ogni pregiudizio e qualsivoglia forma di rifiuto ponendo come valore centrale dell’esperienza umana l’educazione e la rieducazione. San Patrignano mi ha insegnato la forza della possibilità».