Era il 23 giugno 2016 quando andava in scena il referendum più segnante della storia del vecchio continente. I cittadini del Regno Unito, chiamati a mettere una X sul leave remain, hanno deciso le sorti del proprio Paese: uscire dall’Europa. Nasceva così la Brexit. Oggi, a più di quattro anni dalla sentenza di divorzio, si fatica ad arrivare a una soluzione concreta. La Gran Bretagna, come ogni ex moglie che si rispetti, chiede gli alimenti ma l’Europa non ci sta perché la fine dell’Unione deve corrispondere anche al taglio dei benefici. La stranezza che lascia ancora perplessi è che il Regno Unito – come dice la parola stessa, è un’unione di Stati – abbia accantonato l’idea di uno spazio comunitario, di una grande famiglia di Paesi diversi ma con obiettivi comuni. Come se rinnegasse parte della sua stessa natura.

Giorgio Anselmi

Ad analizzare lo zoccolo duro del problema, il senso critico e l’esperienza di Giorgio Anselmi, presidente del Movimento Federalista Europeo di Verona: «Da tempo ormai si cerca di trovare un accordo ma rimangono ancora numerose perplessità in merito a due questioni centrali che non hanno ancora trovato una quadra: la pesca e la partecipazione al mercato unico. Tra i due temi, quello più spinoso è sicuramente il problema della permanenza nel mercato unico. Ricordiamo che ci sono diversi Paesi, come la Norvegia, che ogni anno pagano per avere libero accesso al mercato unico e rispettano tutte le normative. Ora l’Europa non può concedere che uno Stato esterno, perché a tutti gli effetti il Regno Unito diventerà un Paese terzo, abbia delle agevolazioni. Aprirebbe un vaso di Pandora ponendo in essere un precedente che renderebbe legittima una concorrenza sleale, se il Regno Unito potesse impunemente sovvenzionare le proprie imprese. Corollario il tema scottante degli aiuti di Stato e delle Corti arbitrali: non sarà più la Corte di Giustizia a dirimere le dispute commerciali, ma bisognerà trovare una soluzione alternativa di diritto nel momento in cui si presenterà una controversia tra il Regno Unito e l’Unione».

Nella to do list di Boris Johnson campeggiava, fino a una manciata di giorni fa, la questione irlandese oggi risolta, contro ogni aspettativa, con un accordo. Il concordato è stato annunciato da Michael Gove, vicepremier britannico, e da Maros Sefcovic, vicepresidente della Commissione europea. Riguarda il traffico di merci fra l’Irlanda del Nord e il resto del Regno Unito. Una delle condizioni della Brexit era evitare un confine fra Irlanda del Nord britannica e Repubblica d’Irlanda in modo da non riaprire la cicatrice della frontiera che è stata al centro di trent’anni di guerra civile. «Boris Jhonson si è macchiato di un atto che ha creato un vespaio anche all’interno del suo stesso partito: ha deciso di disattendere l’accordo di recesso firmato con l’Unione, che comportava lo spostamento del confine sul mare che separa le due isole. Poi, fortunatamente, si è ravveduto e ha fatto un passo indietro. Da tenere bene a mente che questo maldestro tentativo è stato bocciato dalla stessa Camera dei Lord. Però la vicenda può avere uno sbocco positivo nel concretizzare i tentativi di accordo e approdare a una soluzione. In medias res. La vittoria di Biden, presidente di origine irlandese, ha fatto deflagrare un’eventuale sponda su cui Johnson faceva affidamento. In questo marasma, lascia disarmati che sia proprio il Regno Unito, Paese di antica tradizione liberaldemocratica e pilastro del diritto internazionale da diversi secoli, a tentare queste soluzioni. Molti hanno giustamente sottolineato che sarebbe stato difficile continuare a fidarsi del Regno Unito qualora avesse disatteso un accordo da loro stessi voluto e firmato».

Boris Johnson

Sugo della storia”, la Brexit è diventato un ginepraio, una matassa di cui non si riesce a trovare il bandolo: un tira e molla che si protrae da diverso, troppo tempo. Qualcosa è andato storto. «La vita è troppo breve per diventare tutti esperti dell’Unione Europea. È la grande illusione del populismo in cui si affidano decisioni di estrema rilevanza, con possibili sconvolgimenti, a cittadini che, seppur in buona fede, non hanno le competenze per determinate scelte. Ci sono i politici di professione, il compito spetta a loro (per questo si ricorre alla democrazia rappresentativa e non diretta). È accaduto nel 2016 e si protrae ancora, quando, improvvisamente, i tuttologi si presentano come epidemiologi durante la pandemia o allenatori durante i mondiali di calcio. A dimostrazione di ciò, la Brexit non è stata una scelta unanime: infatti, Scozia e Irlanda del Nord erano per il remain. Il populismo conduce sempre a soluzioni facili e sbagliate. Quando si semplifica una realtà molto complessa, inevitabilmente, si incappa nell’errore. In merito, trovo saggia la scelta italiana per cui si impedisce che accordi internazionali vengano ratificati per via popolare. È una materia estremamente complessa che richiede una formazione specifica. Per es. si parla di un documento di più di 1.800 pagine nel caso che si arrivi ad un accordo tra UE e Regno Unito.»

Secondo il presidente Anselmi insomma, quella di lasciare l’Unione Europea è una scelta sbagliata, un grave errore di cui ora il Regno Unito sta pagando le conseguenze. Una semplice e lineare reazione di causa-effetto. «Ingenuamente, i sudditi di The Queen pensavano di dividere gli altri Stati rendendo la rivalità ancora più aspra. Hanno ottenuto il risultato opposto. Errore di calcolo madornale per i brexiters che in questi giorni hanno attaccato prima Macron e poi la Merkel, mentre le trattative sono solo nelle mani della Commissione. Contro ogni aspettativa, invece, i 27 Stati sono rimasti uniti e coesi. La manovra si è ritorta loro contro e a dividersi sono stati gli Inglesi, con spaccature che hanno attraversato entrambi i principali partiti e l’intera società. Oggi non c’è nessun Winston Curchill a salvarli. È pieno di Mr nobody. Le pulsioni populiste ed euroscettiche hanno fatto sì che il Regno Unito si sia ingabbiato in una serie di contraddizioni senza via d’uscita e con risultati paradossali.»

La Regina Elisabetta

L’Unione da quindici anni raccoglie le forze per superare una serie di stress test: il collasso della Grecia nel 2005, la crisi economico-finanziaria del 2008, la crisi del debito sovrano a partire dalla Grecia, l’esplosione del fenomeno migratorio tra il 2015 e il 2016 fino ad arrivare alla Brexit. Era dai tempi del piano Marshall del 1947 che l’Europa non si trovava improvvisamente tutte le Potenze contro, come è accaduto con la presidenza Trump, ma per questo ha dovuto muovere i primi passi incerti sulle sue gambe. Cina, Russia, Turchia, Stati Uniti e, non c’è limite al peggio, la pandemia. «Dobbiamo constatare e riconoscere che in tre mesi l’Unione Europea ha fatto molto più di quanto abbia fatto in trent’anni. Chiudiamo questo annus horribilis con un’Unione che ha saputo dare una risposta molto forte. Con un divorzio in essere, schiacciata da un lato dal terrorismo e dall’altro dal Covid, la ricetta per un’Europa migliore e per un 2021 sotto il segno della rinascita è semplice: rendere permanenti e strutturali una serie di decisioni. Urgente l’unione fiscale, fondamentale per usufruire delle risorse in direzione della risoluzione delle crisi in atto. In seconda battuta, intervenire sulla questione sicurezza. L’occasione per farlo sarà la Conferenza sul Futuro dell’Europa: rimandata a causa della pandemia, da federalista spero vivamente possa tenersi nel primo semestre del nuovo anno sotto la presidenza portoghese così da disegnare una nuova architettura per una nuova Unione.»

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