L’idea che ho di Paolo Rossi
Se l’essenza degli uomini destinati a scrivere pagine importanti è quella di farsi trovare al punto giusto ai bivi della storia, Pablito quel bivio l’ha visto da vicino varie volte.
Se l’essenza degli uomini destinati a scrivere pagine importanti è quella di farsi trovare al punto giusto ai bivi della storia, Pablito quel bivio l’ha visto da vicino varie volte.
Di Rossi Paolo, nato a Prato 64 anni fa, eroe di un Mondiale spagnolo e scomparso questa notte, io non ho mai visto un singolo minuto giocato dal vivo. Quindi, come potrei raccontare il calciatore e l’uomo? Impossibile.
Paolo Rossi l’ho conosciuto per la prima volta con una vecchia videocassetta della Logos TV, consumata a forza di essere rivista nei pomeriggi apatici della gioventù. Poi attraverso i racconti di mio padre e dei miei zii. Soprattutto di uno, che quel pomeriggio a Barcellona era sugli spalti. È entrato nella mia immaginazione. Ciò che posso fare, quindi, è parlare dell’idea che io ho di Paolo Rossi.
«Nessun esercito può resistere alla forza di un’idea il cui momento è arrivato.» (Victor Hugo)
Se l’essenza degli uomini destinati a scrivere pagine importanti è quella di farsi trovare al punto giusto ai bivi della storia, Paolo Rossi quel bivio l’ha visto da vicino varie volte. Dalla parte sbagliata, della storia e della sbarra, ci si è trovato nella primavera del 1980, con quella storiaccia nefanda del Totonero e del calcioscommesse. Dalla parte giusta ci si è trovato quando ormai non ci credeva più nessuno. Su un appoggio sbagliato da Cerezo, a metà strada tra Falcão e il tackle scivolato di Léo Júnior, nel pomeriggio ardente dello stadio Sarriá, pronto a sgretolare il mito di un Brasile forse irripetibile, con l’uomo a cui questa rubrica è dedicata in campo, in maglia gialla, con la fascetta di capitano al braccio.
«Un’idea che non sia pericolosa non merita affatto di essere chiamata idea.» (Oscar Wilde)
In certi casi, poi, capita di essere ostaggio di un’idea che non è nemmeno la nostra. E in quel luglio del 1982 l’idea ce l’ha in testa un solo uomo al mondo. Naso da pugile, aspro e sincero come le rocce carsiche. Enzo Bearzot è forse l’unico a credere che Paolo Rossi possa tornare il ragazzaccio dei mondiali argentini del ’78, quello pronto ad infilarsi tra le maglie avversarie e scaraventare quella benedetta palla in rete. Anche dopo la sostituzione contro il Perù.
«Erase and rewind, ‘cause I’ve been changing my mind, I’ve changed my mind.» (The Cardigans)
Cancella tutto, ho cambiato idea. Siamo campioni del mondo. E chi se lo ricorda più che in Spagna quella squadra ci è arrivata tra gli insulti di una nazione intera. Che i giornalisti sono praticamente venuti alle mani coi calciatori e che tutti, ma davvero tutti, avrebbero preferito vederli tornare a casa. Con 6 gol in sette giorni Paolo Rossi ha dipinto la volatilità di un’idea. L’inutilità delle convinzioni immutabili e granitiche. C’è chi ci ha speso una vita di saggi per spiegare la stessa cosa.
«Noi non amiamo mai nessuno: amiamo, soltanto, l’idea che abbiamo di qualcuno. Ciò che amiamo è un nostro concetto, vale a dire, amiamo noi stessi.» (Fernando Pessoa)
Amiamo un’idea al punto da trasformarla in tratto esistenziale di un intero popolo. Perché se Rossi Paolo, che non era il più alto, il più veloce o il più forte, può fare tre gol al Brasile, allora è vero che Davide può battere Golia. Che gli italiani danno il meglio di loro quando sono sfavoriti, nel bel mezzo delle difficoltà e che questo assunto lo possiamo fare nostro a ogni alluvione, terremoto o evento catastrofico in genere. Una coperta di Linus contro le nostre stesse inquietudini. Contro le nostre stesse mancanze.
«Tra l’idea e la realtà, tra la motivazione e l’atto, cade l’ombra.» (Thomas Stearns Eliot)
Quella caduta su Paolo Rossi dopo il mondiale spagnolo. Come avesse dato tutto con quei 6 benedetti gol, si accartoccia in sé stesso. Regala forse un ultimo brivido, due reti in un derby milanese di inizio dicembre giocato con la maglia rossonera. Un’ombra le cui dimensioni però non superano le dimensioni di un campo di gioco. Perché per dieci anni e più i ragazzini vorranno essere Pablito nelle partitelle in cortile. E quei ragazzi oggi si commuovono alla stessa maniera in cui si commosse sue padre, quel pomeriggio del Sarriá. Quando per la tensione non volle guardare la partita e seppe dei gol del figlio grazie alle urla dei colleghi della fabbrica di tessuti dove faceva l’operaio. E in quelle urla, c’era già scritto tutto.
©️ RIPRODUZIONE RISERVATA