Sabato 3 ottobre alle 21, al Bastione San Bernardino di Verona, nonostante le difficoltà dovute alla gestione dei concerti durante il Covid-19 e ai relativi slittamenti della data, finalmente avverrà la reunion dei Lecrevisse.

Si tratta di una band fondamentale per il rock underground veronese e italiano dei primi anni Duemila, i cui membri dopo lo scioglimento hanno avuto esperienze musicali soliste di grande rilievo. Andrea Faccioli è oggi chitarrista di Baustelle, Le Luci della Centrale Elettrica, Cisco, e solista come Cabeki; Emiliano Merlin ha dato vita al progetto unòrsominòre. pubblicando splendidi album di cantautorato sperimentale; il polistrumentista Stefano Roveda è stato membro di A Classic Education e Very Short Shorts, e ha collaborato con Marta sui tubi e Guano Padano; Simone Marchioretti è un batterista poliedrico, che suona, tra gli altri, con i The Last Drop of Blood; il bassista Matteo Gasparato si occupa di educazione musicale. Nella band hanno militato anche Andrea Belfi, ora apprezzato percussionista solista che ha suonato nel tour di Thom Yorke dei Radiohead, e Nelide Bandello, noto batterista jazz, ora con Patrizia Laquidara.

Ne parliamo con Emiliano Merlin, uno dei fondatori dei Lecrevisse.

Partiamo dall’oggi o meglio dal recentissimo passato. Come nasce l’idea della reunion? Ci sono state occasioni particolari che hanno fatto sì che tornaste sul palco insieme? E’ un progetto che torna vivo anche in termini di nuovo materiale?

«L’evento che ha dato il LA è stato un mio concerto al Cohen di Verona nel maggio 2017 per celebrare il ricordo di Chris Cornell, il cantante dei Soundgarden che si era appena tolto la vita. Accidenti, sono già passati tre anni! In quell’occasione Andrea (Faccioli) è salito sul palco con me per suonare un paio di pezzi, come facevamo vent’anni prima quando giravamo per i locali di Verona suonando canzoni grunge in acustico; e Matteo (Gasparato) è venuto a sentirci. È stato un momento emozionante e alla fine del concerto abbiamo parlato con un po’ di nostalgia dei tempi della band. Qualche tempo dopo ho proposto la reunion e tutti sono stati entusiasti all’idea. Ci è voluto un po’ per organizzarla logisticamente, anche perché ora io vivo a Roma, ma alla fine l’anno scorso siamo tornati in sala prove e tutto ha fatto clic, istantaneamente. Evidentemente era anche un momento propizio nella vita di tutti noi – siamo più tranquilli di qualche anno fa, e nelle nostre vite c’è spazio (e voglia) per una nuova esperienza di gruppo, da affiancare alle nostra attività personali, musicali e non. Circa il nuovo materiale, sì, stiamo scrivendo e provando cose nuove. Ci ha “aiutato” anche la pandemia: essendo diventato difficilissimo organizzare concerti, ultimamente è stato inevitabile lavorare di più sulla composizione di nuove canzoni. Ma non sappiamo ancora se e quando verranno pubblicate.»

Tornando indietro al 1998 ripercorriamo la genesi e il percorso musicale fatto insieme come band. Come nascono i Lecrevisse? Quali erano le dinamiche di composizione e quali le principali fonti di ispirazione?

«Andrea e io ci siamo incontrati al Valpolicella Rock Contest, uno dei tanti festival per band emergenti che alla fine degli anni ‘90 fiorivano un po’ ovunque. Abbiamo realizzato che entrambi eravamo grandi appassionati delle band di Seattle, Alice In Chains in particolare (ai tempi, in provincia, non era una cosa tanto comune), e abbiamo deciso di suonare insieme. Come dicevo abbiamo iniziato suonando in due, poi abbiamo cercato batterista e bassista trovando Simone (Marchioretti) e Matteo, e qualche tempo dopo si è aggiunto il maestro Stefano Roveda con violino, theremin e sintetizzatori vari. Nel frattempo i nostri orizzonti musicali si erano allargati molto, ci eravamo innamorati dei Motorpyscho, dei Pink Floyd e dei dEUS, e abbiamo iniziato a scrivere cose più indie-psichedeliche che grunge; io poi apprezzavo molto Ivano Fossati ma anche gli Afterhours e ho preso ispirazione da loro per scrivere i miei testi in italiano. Nel 2000 abbiamo pubblicato il nostro primo album, autoprodotto – un disco pieno di distorsioni e divagazioni psichedeliche, che ci ha fatto un po’ conoscere nell’ambiente. Erano anni di grande attenzione alla musica rock indipendente, e dopo un concerto al Meeting delle Etichette Indipendenti siamo stati contattati dalla Jestrai Records, con cui abbiamo pubblicato nel 2003 il nostro secondo album “(due.)”, registrato da Fabio Magistrali (Afterhours, Ritmo Tribale), e molto più orientato sull’indie rock. Quel disco ci ha dato belle soddisfazioni e abbiamo suonato un bel po’ in giro… E poi l’anno dopo ci siamo sciolti, eravamo giovani e scapestrati.»

La dimensione live era ed è importante per la base dei vostri fans. Che ricordi avete di quei concerti? Che atmosfera si respirava, qual era la risposta del pubblico e come vi aspettate sarà ora?

«Erano anni molto diversi, c’erano molti spazi per poter suonare live, tra locali e eventi all’aperto, e alla gente interessava sentire band che proponevano musica rock e originale. A Verona era fiorita una scena molto viva e ogni settimana c’era un concerto interessante di qualche band locale. Noi eravamo riusciti a uscire dal giro provinciale e abbiamo suonato un po’ in giro per l’Italia; chiaramente non essendo conosciutissimi era meno semplice attirare pubblico che in casa, ma comunque ogni concerto era un’esperienza bella, a partire dal viaggio in furgone stipati in sei (noi cinque più il nostro tecnico del suono Max) con gli strumenti e sul palco eravamo un’ottima band, le decine e decine di concerti ci avevano permesso di diventare un gruppo molto affiatato, in cui l’improvvisazione e i momenti psichedelici si alternavano a tirate rock molto coinvolgenti. E infatti un po’ ovunque suonassimo arrivavano complimenti anche da chi non ci conosceva, e il nostro pubblico cresceva di concerto in concerto. Ora, chi lo sa? È tutto diverso, siamo diversi noi, staremo a vedere. Per noi è importante tornare a divertirci suonando le nostre canzoni di allora e componendone di nuove, il resto è tutto in più.»

Mi capitò di assistere a un vostro concerto nel 2002 e pensai che avreste avuto certamente un successo di rilevanza nazionale a breve, per lo spessore della scrittura e per la vostra qualità di musicisti. Cosa è successo invece? Il nostro mercato musicale è bizzarro e raramente in effetti premia la rilevanza artistica…

«Ti ringrazio. Diciamo che le cose non sono andate come speravamo, ma il perché non è semplice da capire. Io penso che per raggiungere il “successo” sia necessario che un sacco di cose vadano per il verso giusto; tutto (la band, il management, e anche le condizioni al contorno) deve spingere nella stessa direzione; e bisogna anche essere fortunati, oltre che bravi. Basta che anche una sola di queste cose non giri al 100% e qualcosa si inceppa. Probabilmente eravamo giovani e un po’ impazienti, probabilmente qualcosa non ha funzionato a livello di gestione del gruppo da parte dell’etichetta, probabilmente eravamo anche un po’ stanchi, stavamo crescendo e i nostri interessi musicali piano piano avevano iniziato a divergere; e anche i tempi stavano cambiando. Comunque col senno di poi, visto come è andata la storia della musica indipendente in Italia e non solo, personalmente non sono più sicuro che sia stato davvero un peccato non arrivare a un “successo” che in questi anni sarebbe stato molto difficile da gestire dignitosamente…»

I Lecrevisse del 2020 sono più disillusi, più maturi o più liberi degli anni zero? Molti di voi hanno avuto una carriera solista o hanno sposato altri progetti: questi percorsi creano oggi un equilibrio nuovo all’interno della band?

«Io credo che siamo più disillusi, più maturi e più liberi. Anche grazie ai nostri percorsi individuali, oltre che agli anni che passano e che inevitabilmente mettono un sacco di cose nella giusta prospettiva, viviamo la cosa con più serenità e divertimento. Non è più il progetto della vita, quello su cui investiamo il 100% delle nostre energie e che quindi viene vissuto con le relative ansie, fatiche e aspettative. Suoniamo insieme perché ci piace farlo e ci stimiamo come persone e come musicisti, e ci confrontiamo tranquillamente su tutti gli aspetti che riguardano la gestione sia musicale che logistica della band. Non ci aspettiamo nulla, ci godiamo questa bella storia che solo qualche anno fa sembrava impensabile, e poi verrà quel che verrà.»

Ostinarsi a suonare dal vivo in tempo di Covid-19 è un gesto di resistenza culturale lodevole, sia per voi musicisti che per gli organizzatori. Sentite la responsabilità del vostro ruolo sul palco in un anno poverissimo per la musica ?

«Beh, “responsabilità” è una parola grossa… siamo una band che fa un concerto, speriamo che sia piacevole, tutto qui. Io personalmente non credo più molto alla “rilevanza culturale” del rock, siamo una faccenda di nicchia, la gente pensa ad altro e ascolta altro. È bello sentirsi dei “resistenti”, e in qualche modo è importante cercare di portare un messaggio utile in tutto quello che si fa, e ci stiamo provando anche con le nuove canzoni – ma non abbiamo certo la presunzione di voler influenzare i pensieri di qualcuno. Credo che questo concerto abbia soprattutto una rilevanza emotiva per noi, che torniamo insieme sul palco dopo sedici anni dall’ultima volta, e per chi si ricorda di noi e rivedendoci potrà rivivere un po’ della magia di quegli anni – o almeno così speriamo. Poi sai, dovevamo farlo sei mesi fa questo concerto, ed è scoppiata la pandemia proprio la settimana in cui dovevamo suonare… diciamo che ci terremmo a mettere un punto su questa cosa. Poi di qui in avanti sarà tutto da vedere, se ci rimetteremo in gioco con una nuova uscita discografica sarà una faccenda diversa.»

La pandemia ha reso evidenti i limiti di un mondo, quello musicale italiano, fatto di sommerso, di dopolavoristi, di crew e di tecnici che hanno perso ogni prospettiva di impiego. Pensi che sia la volta buona per cambiare le regole e alzare il livello al professionismo o che, come spesso accade in Italia, tutto tornerà esattamente come prima al termine dell’emergenza? A tuo avviso quali sarebbero le buone pratiche attuabili per migliorare la situazione della musica in Italia per chi suona e per chi ascolta?

«Io sono sempre pessimista sulle reali possibilità di cambiamento, non solo nell’ambito musicale. Ricordi? All’inizio della pandemia era tutto un “ne usciremo diversi, migliorati, niente sarà più come prima”, e invece tutto è come prima, ovviamente. E anche l’aspetto musicale è raffazzonato, si vivacchia e si cerca di fare quel che si può nei buchi lasciati da una legislazione opprimente e dall’irreversibile e inarrestabile cambiamento del modo di fruire la musica in atto da tempo. Per migliorare la situazione servirebbe una rivoluzione culturale, a tutti i livelli, da quello politico e amministrativo per una più dignitosa considerazione della musica come fatto culturale e non solo come mero intrattenimento, a quello degli addetti ai lavori dove spesso un po’ di professionalità in più non guasterebbe, e solo nell’emergenza ci si scopre appassionati contestatori accorgendosi che le cose non vanno come dovrebbero. Ma servirebbe anche un cambiamento di tutta la società verso una maggiore attenzione alla controcultura, al pensiero critico, alla non omologazione… suona un po’ utopistico, non credi? Quindi tant’è, la verità è che si prende quello che c’è. Forse invecchiare vuol dire diventare fatalisti.»

L’appuntamento con questo attesissimo concerto è per sabato 3 ottobre al Bastione San Bernardino di Verona con inizio puntuale alle 21. Per info e prenotazione dei pochi posti ancora disponibili: https://www.facebook.com/lecrevisse/

Ph. credits Miriam Tinto