Il lasciapassare di Suarez
Il caso dell’attaccante uruguayano, in procinto di firmare con la Juventus, sembra corrispondere a una classica storia di malcostume.
Il caso dell’attaccante uruguayano, in procinto di firmare con la Juventus, sembra corrispondere a una classica storia di malcostume.
È una scena che si ripete nei secoli, come Machiavelli ed Erasmo da Rotterdam potrebbero ricordarci. A chi non è mai capitato di osservare qualcuno chiudere un occhio di fronte a un interlocutore potente, famoso o ricco rispetto a una fesseria o a una proposta indecente se non strizzarlo in segno d’approvazione? Senza neppure dover rifletterci troppo, è una circostanza comune, come quella di non ritrovare la reciprocità nell’atteggiamento verso persone di lignaggio molto più modesto.
Una “attenzione” verso chi conta in senso assoluto o relativo – può valere pure per il caposervizio o il caporale di giornata – che a volte avviene addirittura senza un vero perché, una sorta di riflesso condizionato che risponde alla subliminale casistica del “non si sa mai”, come nel caso dell’esaminatore di Luis Suarez, in predicato di firmare per la Juventus, nella vicenda del suo esame di lingua taroccato con la compiacenza dell’Università di Perugia.
Uno stato di trance, di istinto di sopravvivenza che autoassolve e giustifica il far buon viso a cattivo gioco, incastrati in un modello sociale in cui la sensazione dominante è che la meritocrazia (ottenere il giusto o essere apprezzati per quel che si vale, per quanto possa essere poco) sia un’ipotesi meno probabile di temere o sperare di cambiare le prospettive personali attraverso il proprio o altrui “posizionamento sociale”.
A prescindere dalle ipotesi di reato che potranno essere contestate, il caso del “lasciapassare” alla cittadinanza italiana dell’attaccante uruguayano – in cui appare paradossalmente una vittima delle circostanze – sembra corrispondere a una classica storia di malcostume ma, e questo è il punto, ancor di più riporta a quella “sensibilità” che scatta quando si ha a che fare con dei “potenti” nei proprio mondo di riferimento.
Sono influential più che influencer che riportano alla mente un film di Paolo Villaggio diretto da Neri Parenti. Non il “Fantozzi”, ma bensì “Fracchia”, altro personaggio interpretato dall’attore genovese, nella storia in cui si il protagonista si confronta con “La Belva Umana”. I dialoghi tra Lino Banfi, nel ruolo del commissario Auricchio e Sandro Ghiani, che recita la parte del suo mite collaboratore De Simone, rappresentano la fotografia in chiave grottesca della casistica che rimanda sempre al “posizionamento sociale” di cui sopra e della bivalenza dell’atteggiamento da parte delle terze persone coinvolte. Insomma, chi ha potere viene assecondato. Chi non ne ha, talvolta non lo si ascolta neppure.
Nel film in questione il sottoposto De Simone è prodigo di iniziative e suggerimenti per risolvere le problematiche che mano a mano si succedono. Purtroppo per lui, non sono mai accolte dal commissario Auricchio, che le boccia pubblicamente come “stronzete”, come quella del “lasciapassare” nella scena culto del film, tra l’approvazione dei colleghi tanto da umiliare il povero sottoposto. Dopodiché, come se nulla fosse, Auricchio ricicla l’idea di De Simone, se appropria e la propone come sua, ricevendo in questo caso i vivissimi complimenti degli astanti.
Ma di Auricchio, Fracchia e De Simone e dei loro colleghi non ne esistono solo al cinema. Esseri solitamente umani, per dirla alla Fantozzi, che talvolta giocano sulla loro posizione mandando in trance chi alla fine risponde ad una sorta d’istinto di sopravvivenza autoassolvendosi, incastrato in un modello sociale in cui la sensazione dominante è che la meritocrazia (ottenere il giusto o essere apprezzati per quel che si vale, per quanto possa essere poco) sia un’ipotesi meno probabile di temere o sperare di cambiare le prospettive personali attraverso il proprio o altrui “posizionamento sociale”.