Pecunia fanatica
Nella ricerca archeologica i nomi dei luoghi rappresentano un indizio spesso determinante: nel caso della ricerca del santuario di Minerva a Marano di Valpolicella tale indizio è stato decisivo.
Nella ricerca archeologica i nomi dei luoghi rappresentano un indizio spesso determinante: nel caso della ricerca del santuario di Minerva a Marano di Valpolicella tale indizio è stato decisivo.
Nella ricerca archeologica i nomi dei luoghi rappresentano un indizio spesso determinante: nel caso della ricerca del santuario di Minerva a Marano di Valpolicella tale indizio è stato decisivo.
Poco più sotto la cima del monte Castelon, un rilievo che divide la valle di Fumane da quella di Marano e che spicca con i suoi 591 metri, dominando dall’alto l’intero fondovalle, si trova la chiesa di Santa Maria di Valverde, la cui denominazione si alterna a quella di “Minerbe”, presente nei documenti a partire dal 1184, nella forma Menervii.
Nel 2006 la Soprintendenza per i beni archeologici del Veneto e l’amministrazione di Marano decisero di dare avvio ad un progetto scientifico per la riscoperto dell’antico luogo di culto. Tuttavia il primo problema da affrontare fu un quesito semplice ma indispensabile: dove si dovevano andare a cercare le strutture di questo leggendario complesso? Se infatti la memoria del luogo era sempre stata viva nella popolazione, nei secoli si era persa traccia della sua esatta collocazione.
Già nel 1835 le pendici del monte Castelon erano state battute alla ricerca di eventuali strutture. Il conte Girolamo Orti Manara, figura di spicco del veronese e studioso di antichità locali, aveva avanzato l’ipotesi di un possibile collegamento tra il toponimo Minerbe e l’antico culto romano, mettendo in campo a proprie spese “maestranze nerborute”. La conferma non tardò ad arrivare. L’operazione di scavo fu ardita, senza alcuna attenzione all’elemento stratigrafico, secondo metodi tipici dell’epoca, volti principalmente all’individuazione dei reperti ritenuti particolarmente significativi. Le indagini misero in luce strutture murarie, manufatti architettonici e diversi reperti mobili documentati minuziosamente da un collaboratore del conte, il pittore mantovano Giuseppe Razzetti: tra di essi almeno una decina di iscrizioni dedicate alla dea Minerva a conferma che si trattava di un luogo di culto dedicato proprio a questa divinità.
Il conte Orti Manara riferì delle indagini nella sua relazione apparsa sul Bullettino dell’Istituto di Corrispondenza Archeologica del 1836, pubblicata tuttavia in forma abbreviata per esigenze editoriali e perdendo in questo modo dati che si sarebbero rivelati preziosi per le ricerche future.
Grande fu il clamore che la scoperta suscitò ma dopo la campagna di scavo le rovine rimasero a lungo dissepolte, esposte senza un’adeguata protezione e molti furono coloro che visitandole, non disdegnavano di raccogliere piccoli reperti o staccare frammenti di elementi architettonici.
Olindo Falsirol, maranese d’adozione e libero docente dal 1959 al 1967 della cattedra di Etnologia presso la facoltà di Napoli, affermava che, ancora nel 1929, molti resti tra cui frammenti di colonna e di pavimenti erano visibili. Tuttavia negli anni successivi seguirono trasformazioni radicali che portarono alla cancellazione dell’antico assetto del monte con la creazione delle terrazze che ancora oggi vediamo e che nascosero totalmente le ultime evidenze. Sempre il professor Falsirol nel 1967 pubblicò l’unica reale descrizione del luogo in cui sorgeva il santuario con una tale precisione da lasciare intendere di avere visto il sito personalmente proprio intorno al 1929. Ecco che la sua testimonianza divenne dunque la guida giusta da seguire nella ricerca del 2006 su quel versante orientale del monte Castelon ormai profondamente modificato. Ad aiutare nell’impresa questa volta venne chiamata a raccolta tutta la cittadinanza, soprattutto quella più anziana che, con la propria memoria, avrebbe potuto aiutare nel comprendere meglio, riconoscendo sul terreno le tracce della descrizione di Olindo Falsirol: tutti insieme, sindaco, archeologi, amministratori comunali, anziani salirono sul monte.
Nel 2007 nel luogo eletto il più attendibile dal gruppo vennero avviate le prime indagini e grazie ad alcuni sondaggi, alla profondità di circa 3 metri, vennero intercettate le strutture, confermando la precisa ubicazione. La gioia e l’entusiasmo furono immensi. Le successive ricerche del 2010 e del 2013 permisero di rimettere in luce l’intera area ampliando, grazie agli scavi, questa volta eseguiti con perizia e rigore scientifico, maggiori informazioni. Il santuario del monte Castelon attraverso gli strati della sua storia raccontò di una frequentazione quasi millenaria che andava dal VI secolo a.C. fino al V secolo d.C.
Una grande area votiva all’aperto, risalente all’età del Ferro, aveva caratterizzato i primi quattro secoli di vita, celata sotto le strutture viste ed indagate dall’Orti Manara. Un accumulo di terreno carbonioso, oggi visibile nell’area archeologica, conseguenza di un rogo votivo formatosi nel corso dei secoli, ha restituito interessanti reperti quali offerte di cibo, 99 anelli digitali, 3 bulle di cui due in bronzo ma frammentarie ed una integra in argento. Un oggetto quest’ultimo davvero straordinario e raffinato, costituito da due calotte emisferiche, unite in alto da una fascetta piegata ad occhiello e la cui superficie è decorata a sbalzo con una S posta obliquamente.
Sui resti del rogo protostorico successivamente, tra la seconda metà del II secolo e l’inizio del I secolo a.C., quindi in età repubblicana, fu realizzato un edificio in muratura che andò a sostituirsi alla precedente area votiva. A questa seconda fase sono pertinenti intonaci delle pareti, riferibili al primo stile pittorico. Un tecnica decorativa che imitava, tramite elementi in stucco, il rivestimento delle pareti in lastre di marmo. La presenza di questa decorazione così raffinata ma soprattutto così legata al mondo delle maestranze del centro Italia ha suggerito che dietro la realizzazione di questa fase del santuario vi fosse una committenza culturalmente molto elevata che voleva marcare un luogo di culto con un segno tangibile dalla forte valenza politica non solo religiosa. Insomma il segno che Roma era giunta definitivamente in questi luoghi.
La terza ed ultima fase del santuario è riferibile all’età augustea che con restauri e riparazioni, rimase inalterata per diversi secoli fino all’abbandono avvenuto nel corso del V secolo. Intorno al vano quadrangolare, oggi visibile e già individuato da Orti Manara, correva un porticato che doveva essere sorretto da colonne doriche poggiate a murature su tre lati, mentre il lato ad ovest, verso il monte che con la sua parete di roccia costituiva la quinta scenografica, era prospiciente ad un canale delimitato da una struttura a grossi blocchi calcarei. Schema planimetrico, completo di quatto gallerie, è caratteristico dell’architettura religiosa d’Oltralpe, di un gran numero dei cosiddetti fana celtici.
A questo periodo risalgono le dieci iscrizioni ritrovate proprio dall’Orti Manara che costituiscono un’importante scoperta non solo perché rinvenute all’interno della struttura dove erano originariamente collocate ma anche perché forniscono ancora oggi una mole di dati davvero interessante. Numerose sono le dediche a Minerva, per lo più ex-voto, in alcune definita Augusta e in una associata a Giove e a Giunone, le altre due divinità della triade capitolina. Tra tutte emerge l’iscrizione che menziona i curatores fanorum un collegio sotto la cui gestione il santuario subì un’opera di restauro o forse il suo totale rifacimento, attingendo alla pecunia fanatica, il denaro consacrato in cui confluivano per esempio le offerte, le rendite dei beni del santuario, le quote versate dai sacerdoti quando assumevano la carica.
Sia la fase repubblicana che quella imperiale testimoniano uno stretto legame con la fessura presente nella parete di roccia da cui anticamente sgorgava acqua e la cui presenza era sicuramente connessa con le varie fasi del culto che nel santuario veniva celebrato. Non si trattava di una vera e propria sorgente: l’acqua veniva rilasciata saltuariamente dalla parete di roccia, di natura vulcanica, trattenuta a seguito della pioggia, la cui uscita costituiva sicuramente un fenomeno prodigioso.
Un livello di cenere e di legno carbonizzato rinvenuto sul pavimento pose fine alla vita del santuario: testimonianza di un incendio che tuttavia non fu così devastante da distruggere le strutture. Le indagini archeologiche hanno evidenziato una mancanza di manutenzione ed un lento progressivo abbandono di cui il fuoco fu soltanto il triste epilogo. Alcune monete ritrovate nello stesso strato datano le ultime presenze al IV- V secolo d.C.
Strati di terra coprirono il sito nei secoli e con essi giunse l’oblio che cancellò le tracce del santuario e del luogo preciso in cui esso sorgeva. Ma non la sua memoria che rimase presente profondamente in quella degli abitanti e nel nome del luogo.