Hong Kong non torna indietro
Hong Kong non mostra segnali di cedimento e prosegue nella sua lotta, a suon di proteste di piazza, per la difesa delle libertà civili.
Hong Kong non mostra segnali di cedimento e prosegue nella sua lotta, a suon di proteste di piazza, per la difesa delle libertà civili.
La tradizione delle proteste a Hong Kong trova le sue radici nel periodo coloniale, quando si instaurò un meccanismo per certi versi virtuoso, definito brillantemente dall’ultimo governatore inglese, David Patton come una «libertà senza democrazia». Infatti, il Regno Unito non ritenne mai necessario dare ai cittadini il potere di eleggere propri rappresentanti, scegliendo di fatto dall’esterno i governatori (cosa che accade tuttora con l’elezione finto-democratica del candidato prescelto da Pechino); la Corona concesse però importanti diritti di altra natura, come la libertà di parola e pensiero, la libertà di protestare e quella di stampa. Le proteste divennero quindi un modo tollerato ed efficace per esprimere dissenso o chiedere azioni al governo, prima inglese e poi – dopo il cosiddetto “handover” del 1997 – cinese.
La più memorabile fu forse la marcia di oltre un milione di persone in seguito della violenta repressione dell’Esercito Popolare di Liberazione, il 4 giugno 1989 – la famigerata Piazza Tienanmen. Al lutto si unirono quel giorno persone di ogni ceto sociale, dal clero ai cantanti pop, dai lavoratori agli industriali. Furono i membri della Triade a voler collaborare con il mondo universitario per aiutare gli studenti e accademici ricercati a scappare sull’isola. Hong Kong è l’unico luogo in tutta la Cina dove questo terribile evento viene ricordato, da trent’anni, con una fiaccolata nel centralissimo Victoria Park. Il Coronavirus è stato preso come pretesto per vietare la veglia del 2020 ma migliaia di persone vi hanno partecipato comunque, sfidando la nuova legge anti-sedizione e, naturalmente, mantenendo la distanza di un metro.
Lo stesso evento, solo un anno fa, coinvolse 180.000 persone, che nelle settimane successive tornarono più volte sulle strade per ottenere lo stralcio di un’altra legge, quella sull’estradizione di dissidenti in Cina. Allora i protestanti ebbero successo e crearono le basi sia per il rafforzamento dell’ideale che, purtroppo, per l’intransigenza dei giorni nostri da parte di Pechino: la nuova legge contro le sedizioni verrà scritta e applicata. La Governatrice Carrie Lam è stata molto chiara e le sue parole, volte a rassicurare la platea internazionale in quanto «la nuova legge riguarda una casistica molto ristretta», hanno di fatto creato ulteriore allarme: «Siamo una società molto libera – ha detto Lam, in risposta alle accuse di non aver escluso la retroattività della legge – e per il momento tutti hanno il diritto di dire ciò che vogliono». Quel “for the time being” ha scatenato ulteriori, sempre meno pacifiche proteste. Da un lato, i manifestanti hanno iniziato a costruire posti di blocco, a usare molotov e a vandalizzare i negozi che non espongono il nastro giallo pro-democrazia; dall’altro, la polizia è stata autorizzata a usare vere pallottole e in un anno sono state arrestate oltre 8000 persone, tra cui un migliaio di minorenni.
È infatti la protesta dei giovani e giovanissimi, la “chosen generation” di prescelti che vanno in prima linea, nel timore che nel 2047 – anno in cui la Cina non avrà più obblighi in base al trattato con gli inglesi dei “Uno Stato, Due Sistemi” – i cittadini di Hong Kong subiranno un lavaggio del cervello (teorie poco fantasiose, di cui hanno potuto leggere, nella libera isoletta). Con loro vanno persone di ogni tipo, di ogni età: il più anziano arrestato ha 83 anni, il più giovane 11. Si mobilitano le scuole, ci sono scioperi dello studio perfino nelle primarie, ma soprattutto superiori e università. Il reportage di “Time” mostra le “Facce della Protesta”, i visi mascherati di questi ragazzi vestiti di nero e racconta le loro incredibili storie: a 15/17 anni hanno già provato cosa significa far parte de “I Coraggiosi” (come vengono chiamati in cantonese): lacrimogeni, percosse, proiettili di gomma, ginocchia sul collo e un testamento sempre pronto, nel taschino della giacca. Sembrano pronti a morire, se uno di loro dice: «Tutti noi abbiamo già rinunciato al nostro futuro per essere qui, ora. Non esiste una via del ritorno. Sappiamo che Hong Kong indipendente è utopia, ma se arriva l’Esercito, il nostro modello economico crollerà e porteremo con noi anche la grande Cina».
L’idealismo dei giovani si confronta con i numeri della realta: se nel 1997 Hong Kong pesava per il 20% del PIL cinese, il gigante è cresciuto velocemente e l’isola ora apporta solo un 3%. Ci sono poi molti residenti che sostengono Pechino e genitori che disconoscono i propri figli manifestanti; la stessa legge è stata approvata dai vertici di cinque università cittadine e la stampa locale parla di una petizione, teoricamente firmata da 2,93 milioni di cittadini, a sostegno della legge. I grandi tycoon dell’isola sono ovviamente favorevoli a un ritorno alla calma, al mantenimento dei propri privilegi acquisiti: che questo accada sulla pelle di studenti pieni di ideali di libertà alle oligarchie di ultra-ricchi non sembra molto diverso da quanto vedono accadere nelle loro fabbriche ogni giorno. A loro non importa se l’arrivo di manovalanza dalla terraferma (dal 1997 oltre un milione di persone) ha negli anni innalzato i prezzi immobiliari e molti sono costretti a vivere nelle cosiddette “bare”, cubicoli abitativi di circa 2 mq – no, non è un refuso, sono proprio due.
I manifestanti sperano che la pressione internazionale possa influire sul testo definitivo della legge, tuttora in elaborazione, ma Pechino non sembra recepire il monito dell’attivista Lokman Tsui su Facebook: «Taiwan sta guardando. Gli Stati Uniti stanno guardando. Pechino è avvertita, è davanti agli occhi del mondo». Anzi, se possibile ha intensificato la repressione, definendo le proteste un «virus politico da estirpare» e procedendo negli ultimi mesi all’arresto di 15 tra le figure più prominenti del movimento pro-democrazia, tra cui il notissimo Martin Lee, anni 81 e veterano di tutte le proteste, che ha commentato ironicamente di «essere orgoglioso di essere finalmente finito nello stesso elenco di tanti brillanti giovani».
La storia tristemente insegna che la Cina è un rullo compressore inarrestabile, capace di riscrivere gli eventi e di nascondere l’evidenza. Appare chiaro che se la legge diventa applicabile, pian piano colpirà i media, le organizzazioni umanitarie e qualunque critichi il governo centrale. In questi giorni molti residenti di Hong Kong stanno valutando di emigrare, pur nell’incertezza che questo potrà avvenire legalmente. Un aiuto arriva dal premier inglese Boris Johnson che, forse per un senso di colpa che non ha precedenti nel Regno, si è dichiarato pronto ad accogliere i titolari di un “Passaporto inglese d’oltremare” (circa 350.000 a Hong Kong, con oltre 2,6 milioni che potrebbero richiederlo ora) oltre i limiti attualmente consentiti, in modo che possano – dopo i cinque anni di residenza stabile – richiedere la cittadinanza inglese. Un’azione pratica (finora l’unica) contro quelle che ha definito in Parlamento «aperte violazioni dell’accordo del 1985 in cui la Cina si impegnava a garantire tutte le libertà fino al 2047».
Hong Kong, da sempre considerato un paese di gente pragmatica, arrivista e materialista, scopre di avere un orgoglio nazionale, di voler cantare ancora il proprio inno nelle strade, di possedere un cuore idealista e una generazione di teste calde. A cui non può non andare la solidarietà di chiunque, al di là delle individuali posizioni politiche, creda nella libertà e nell’indipendenza.