Facebook, l’infodemia e il fact checking
Il social network di Mark Zuckerberg lotterà al nostro fianco contro bufale, complottismi e catene di Sant’Antonio condivise sulla sua piattaforma.
Il social network di Mark Zuckerberg lotterà al nostro fianco contro bufale, complottismi e catene di Sant’Antonio condivise sulla sua piattaforma.
E così, pare che anche facebook abbia deciso di fare un po’ di fact checking. È di qualche giorno fa, infatti, la conferma che il social network di Mark Zuckerberg lotterà al nostro fianco contro le bufale, i complottismi e le catene di Sant’Antonio pubblicate e condivise sulla sua piattaforma.
Quella presa ai piani alti di Menlo Park è una scelta resasi quasi necessaria per cercare di arginare l’infodemia legata al Covid-19, con teorie, fino a ieri in libera circolazione, che variano dallo strampalato al pericoloso. Una presa di posizione corretta, non c’è che dire. Solamente, sapete, fare i duri e puri adesso, dopo almeno un decennio in cui hai visto scorrazzare sulle bacheche dei tuoi contatti qualsiasi scemenza partorita dallo scibile umano, ecco, è un po’ come andare dal dottor Nowzaradan quando sei 280 kg e dirgli che da domani ti vuoi mettere a dieta.
Andiamo ad analizzare più nel dettaglio questa proposta. L’idea iniziale del team FB era quella di “flaggare” le fake news con una sorta di talloncino che ne segnalasse l’inattendibilità. Tipo una medaglietta appuntata in pieno petto al post, che ti rimandava a un link con la rettifica. Test fallito, si sono accorti che gli utenti se ne fregano o, comunque, non tornano indietro a rivedere le cose condivise in passato per leggersi le rettifiche. Questo perché, quando abbiamo un cellulare in mano, tendiamo a trasformarci in una sorta di essere mutante che unisce in sé pigrizia e velocità assolute. Troppo svogliati per leggere tutto un post (non parlo di andare a cercare le fonti, non punto così in alto) e contemporaneamente rapidissimi nel condividerlo. Una sorta di Minotauro: il corpo di Usain Bolt e la testa dell’ingegner Cane.
Bella forza, avrebbero potuto risparmiarsi il test facendo una telefonata al sottoscritto o a uno qualsiasi delle migliaia di social media manager che seguono la comunicazione digitale di aziende grandi o piccole. A noi, che se scriviamo in maiuscolo “DOMENICA CHIUSO”, sappiamo già che in capo a cinque minuti arriverà un commento che chiede se il negozio domenica mattina è aperto. Per questo e altro da anni abbiamo perso la fiducia nell’umanità. Colleghi, siamo degli eroi, sappiatelo. E se non abbiamo ancora organizzato una strage collettiva è solo perché… no, non lo so il perché.
Quindi, scartato il talloncino, ora si procede alla seconda opzione. Oltre a contrassegnare il contenuto fake, all’utente arriverà una vera e propria notifica a segnalare la bufala in cui si è incappati. Se questa scelta, di fatto, dovrebbe bypassare il problema della disattenzione dell’utente, mi permetto di segnalare almeno due possibili effetti collaterali.
1. Ad analizzare il contenuto dei post e delle notizie condivise saranno dei fact checker indipendenti, e toccherà a loro porre il bollino di fake news o meno. Vi regalo una preview: “Certo, e chi sono questi professoroni? Chi li conosce? Saranno finanziati da Soros e dai Poteri Forti del Nuovo Ordine Mondiale”. Lo fanno per Burioni, figuratevi con gente che manco conoscono.
2. I travasi di serotonina e gli attacchi di colite che colpiranno più o meno tutti quando, convinti di aver ricevuto un like o un cuoricino, cliccheremo sulla campanella e ci sarà invece una vocina a dirci “o grullo, che tu ci sei cascato anche stavolta”. Tra l’altro, questa cosa della notifica io me l’immagino come in quella scena di Jurassic Park (il primo ovviamente, l’unico, motore immobile del cinema) in cui Dennis Nedry deve fottere gli embrioni di dinosauro e incasina tutti i pc, e quando provano a riavviarli appare sullo schermo il suo faccione a dire che manca la password. Sì, nei miei sogni la notifica è un pop up con Nedry che parla in toscano.
Ma, anche si dovessero superare queste due problematiche, si aprirebbe quella, probabilmente, più seria. Quell’amplissima zona grigia costituita dai contenuti d’opinione o dalle richieste di chiarimenti. Nel senso, se sono io a condividere il mio pensiero bislacco e un fact checker decide di bollarmi, poco male. Ma se sono comprovati esperti a farlo?
Esempio pratico A: vi ricordate, a inizio emergenza, i virologi che si contraddicevano tra loro sulla pericolosità del virus? Nessuno di loro stava propagandando fake news, semplicemente c’era chi sbagliava di più e chi meno. Come li “flagghiamo” questi contenuti?
Esempio pratico B: circola da qualche giorno il video di un’intervista in cui il dottor Shiva Ayyandurai (uno che ha una laurea per ogni dito della mano e un capoccione tanto, non il Panzironi di turno) parla di «quello che ci nascondono sul Coronavirus». Ecco, anche se le sue affermazioni fossero per la maggior parte errate, capite che è un po’ più difficile metterlo tra i complottari tout court? Piccola nota di colore: su Twitter il dottor Shiva accanto al suo nome, oltre al proprio lavoro, mette anche “Inventor of Email”. Ve lo immaginate cosa avrebbe dovuto scrivere Jon H. Tavel?
Comunque, è ora di chiudere il cerchio. Qualunque strumento, anche se imperfetto, per evitare infodemie passate, presenti e future, sarà sempre meglio del Far West a cui abbiamo assistito fino a oggi. E chissà che pure certi personaggi noti o con responsabilità istituzionali comincino a darsi una regolata. Speriamo di riuscire tutti a migliorarci. Ora scusate, scappo a vedermi l’ultima puntata di Vite al limite. Sono in ritardo, e il dottore ha detto che se tardo ancora lui non potrà più aiutarmi.