Sepúlveda, l’uomo del popolo che dava voce a chi non ha voce
Oggi, dopo aver lottato a lungo contro il Coronavirus, si è spento il grande scrittore cileno.
Oggi, dopo aver lottato a lungo contro il Coronavirus, si è spento il grande scrittore cileno.
Per capire l’essenza e cogliere l’anima di Luis Sepúlveda ci aiutano le sue stesse parole, che scrisse nell’autobiografico Ingredienti per una vita di formidabili passioni: «A volte invidio gli scrittori e le scrittrici che confessano di aver vissuto in compagnia di vetuste e ben fornite biblioteche di famiglia. Non è il mio caso. Sono cresciuto in un quartiere proletario di Santiago del Cile e anche se a casa c’era qualche libro, sarebbe di una vanità spaventosa dire che si trattava di una biblioteca».
Sepúlveda non era un intellettuale à la page, astratto, snob, elitario o – come si direbbe oggi – “fighetto”. Non era nemmeno un predestinato della letteratura, «che scoprii a 13 anni quando mi invaghii di una ragazza, a me piaceva il calcio, ero attaccante, non giocavo male, lei mi rispose che amava la poesia. Così un giorno mi capitò tra le mani un libro di Pablo Neruda». Sepúlveda era un uomo del popolo, concreto, temerario, profondo, carnale. Di passioni popolari. Non era un intellettuale “classico” nemmeno nell’immaginario, o nello stereotipo fisico a cui spesso si confinano gli uomini di pensiero: Sepúlveda mica era un cereo e triste emaciato, era invece possente, atletico, concreto, ruvido con quella faccia da “indio” e un passato da guardia del corpo di Salvador Allende (con cui si trovava alla Moneda il giorno del golpe di Pinochet, l’11 settembre 1973). Sepúlveda divenne naturalmente un intellettuale ed era riconosciuto come tale, senza che lui volesse esserlo e certamente senza che mai lo mostrasse con compiacenza. Sepúlveda soprattutto ha messo a disposizione delle gente quella sua immensa ricchezza di cultura, creatività, talento per le parole, senza specchiarsi nei ricami, senza mai vanificarsi nel circuito autoreferenziale di molti suoi colleghi, senza vivere nella gabbia delle “belle recensioni” o dei salotti buoni.
Sepúlveda, uomo del popolo, è stato di conseguenza scrittore popolare, sposando nella sua opera letteraria quella che lui, non senza ironia, definiva “la gente non interessante”. «So – diceva – che per questo a volte vengo considerato un individuo strano che sacrifica il suo talento e la sua capacità di affermarsi. In effetti per esempio, invece di raccontare l’audace vita di un uomo d’affari che riesce a diventare il maggior azionista di una fabbrica di rubinetti per l’acqua potabile, preferisco raccontare la storia di un umile idraulico preoccupato perché certi rubinetti gocciolano, perdono acqua, e così per evitarlo al tramonto della sua vita condivide le proprie conoscenze con la gente umile del quartiere, e gli do voce perché spieghi il portento dell’acqua, la duttilità di certi metalli, il nesso che lega un attrezzo alla mano per esaudire un desiderio.» Sepúlveda infatti ha impegnato la sua letteratura a «dare voce a chi non ha voce», ispirato – confidava – al francese Émile Zola, ai connazionali Alonso de Ercilla, soldato-poeta, e Baldomero Lillo, al brasiliano Guimarães Rosa, al polacco Ryszard Kapuściński e al giallista svedese Henning Mankell, «che attraverso il noir scandinavo dà voce alle vittime dell’apartheid in Sudafrica». Uomini prima ancora che scrittori, un dualismo questo che non può non sovrapporsi: «Come persone – scriveva Sepúlveda – abbiamo il dovere di stabilire un rapporto con la vita e con la società improntato a un’etica rigorosa, che più è rigorosa più ci umanizza. Alla letteratura siamo invece legati da un forte vincolo estetico. L’etica e l’estetica sono però destinate a incrociarsi e quindi la cosa più interessante negli scrittori e le scrittrici che apprezzo è che conferiscono alla letteratura la stessa carica etica con cui affrontano i fatti sociali, mentre le loro stesse vite si arricchiscono della stessa carica estetica che conferiscono alla letteratura.
Per me è difficile immaginare una letteratura priva di conflitto tra l’uomo e ciò che gli impedisce di essere felice. Non potrei mai affrontare la letteratura, la scrittura, senza la consapevolezza di essere la memoria del mio Paese, del mio continente, di tutta l’umanità.» Con “etica rigorosa” e “vincolo estetico” Sepúlveda ha raccontato i soprusi e la violenza del Cile di Pinochet, del quale fu prigioniero politico, vittima di torture e infine esule. Il generale e il giudice al riguardo è una pietra miliare, ma anche il meno celebrato Le rose di Atacama. Ha scritto della tragedia dei desaparecidos; narrato di uomini, donne, di sconfitti e umiliati, degli indios della selva amazzonica nel romanzo che lo rese celebre, Il vecchio che leggeva romanzi d’amore. Ha pubblicato un inno alla vita universale, per grandi e bambini, che è la Storia di una gabbianella e del gatto che le insegnò a volare, parabola letteraria della solidarietà tra diversi, fiaba della generosità disinteressata, manifesto d’amore per la natura. Sepúlveda ci ha lasciato, ha esalato l’ultimo respiro di Settanta anni vissuti pienamente in un ospedale di quelle che erano diventate le “sue” Asturie, stroncato dal virus che sappiamo. Ma, come succede ai giganti, lascia in eredità un’enormità letteraria e un insegnamento: il talento va messo a disposizione per migliorare le vite delle persone, non per prevaricarle.