La NBA, come tutti gli sport, è ferma. Le superstar si allenano al chiuso delle rispettive regge hollywoodiane e molti allenatori professano di non sapere nemmeno se e quali siano i giocatori positivi al Covid-19, come gli atleti si stiano tenendo in forma e quale possa essere il futuro della Lega più seguita del pianeta. Si parla di finali a Las Vegas in estate, ma di certo – al momento – c’è solo la forzata pausa. A questo punto non si esclude nemmeno un annullamento della stagione 2019/2020. Sicuramente questo scenario sarebbe un danno per i Los Angeles Lakers, la franchigia più glamour e conosciuta al mondo. Dopo anni di purgatorio e un’estate di mercato sfavillante, finalmente sono tornati a vantare una squadra degna del proprio blasone, ma devono puntare a vincere il prima possibile. Il discorso è del tutto simile a quello che possiamo porre per la italiana Juventus, legata all’anagrafe di Cristiano Ronaldo. In California il problema sono gli anni di LeBron James – il Re, il Prescelto – nato nel 1984. Domina ancora come nel pieno delle forze, ma chissà per quanto. Al contrario, per i Golden State Warriors la pausa è una manna dal cielo. Dopo una sequenza di infortuni colossale che fin dalla scorsa primavera hanno minato uno dei roster più forti di tutti i tempi, ora hanno il tempo di recuperare tutti i loro campioni. Non solo: per effetto delle regole NBA e di una stagione giocoforza votata al rebuilding, dovrebbero avere buone possibilità di accaparrarsi qualcuno tra i migliori giovani prospetti provenienti dal College, andando a rinforzarsi ulteriormente per il futuro. Tra gli uomini più felici di questo stop dovrebbe esserci Stephen Curry, il leader della franchigia di San Francisco, alle prese con il recupero dopo una frattura alla mano. Non un semplice atleta, ma il giocatore che negli ultimi anni ha rivoluzionato il modo di stare in campo della stragrande maggioranza delle squadre del pianeta. Su di lui al rientro, forse proprio per questa sua caratteristica di innovatore, ci sarà inevitabilmente una pressione esagerata. La domanda che tutti si fanno è: tornerà lo Stephen Curry di prima? Sarà ancora una “macchina da canestri” con range di tiro illimitato? Riuscirà a riportare al vertice la propria squadra, non più esattamente quella di prima? Le difese delle squadre avversarie nel frattempo avranno progettato sistemi per opporsi alle sue qualità?

Per avere risposte ai precedenti quesiti occorre aspettare, ma sicuramente il tempo gioca dalla sua parte. Curry ha sempre dimostrato di essere un professionista esemplare che dagli stop ha saputo trarre nuovi spunti di miglioramento. Un po’ come Federer nel tennis. La domanda principe però, in questa pausa forzata, è se Curry abbia davvero cambiato il gioco NBA e della pallacanestro in generale o se l’evoluzione alla quale abbiamo assistito in questi anni si sarebbe verificata ugualmente. Per provare a rispondere al quesito, occorre analizzare qualche numero.

Stephen Curry è arrivato in NBA nel corso del draft 2009, quindi la sua prima stagione da Pro è stata la 2009/2010. Nelle dieci stagioni precedenti i Golden State Warriors avevano utilizzato il tiro da 3 in media il 21,7% delle volte. Già nella stagione dell’esordio di Curry passano al 23,78%, con il loro playmaker che contribuisce con 4,8 tiri a gara e il 33,3% delle sue conclusioni a canestro prese dalla distanza. L’anno della svolta però, quella che elegge Curry a superstar della Lega di basket americana, è il 2013/2014, il primo in cui dimostra vera maturità sportiva. Se leggiamo le statistiche, i Golden State Warriors finiscono sopra le 50 vittorie in stagione – 50 è generalmente la soglia fatidica per considerare buone le stagioni – con il 29,08% dei tiri da 3 sul totale e Curry che ne prende 8 a gara, tirando sempre sopra al 40%. In una NBA che fin lì aveva sempre prediletto il tiro dal Mid Range, è una rivoluzione. Nonostante i Reggie Miller o i Ray Allen che si erano succeduti sul parquet, esempi di tiratori sopraffini dalla lunga distanza negli anni ’90, non si era mai visto nessuno tirare con assoluta naturalezza da “casa propria” con le mani del difensore in faccia. Velocità di esecuzione, coordinazione assoluta sia negli arti inferiori, da ballerino, che in quelli superiori, potenti più di quanto non direbbe lo sguardo, hanno fatto di Curry un’arma mai vista nemmeno nei videogiochi Arcade. Nelle stagioni successive a quella 13/14 l’innovazione proposta da Curry e dai suoi Golden State Warriors non si ferma e viene addirittura estremizzata. Ad opera di chi? Proprio dello stesso atleta nativo di Akron, arrivato nella stagione 18/19 a terminare con 11,7 conclusioni a partita oltre la linea dei 3 punti. Efficienza? Costante. All’aumentare dei tiri Curry ha sempre segnato ben oltre il 40% da 3. Pazzesco, specie in una Lega dove la tattica e lo studio degli avversari è il meglio che lo sport mondiale possa vantare.

In quegli anni di evoluzioni molti allenatori tradizionalisti hanno subito provveduto ad emettere sentenze: “Curry è Curry, è inimitabile”. Pur condividendo le caratteristiche speciali del giocatore la questione va posta da un’altra angolazione, non soltanto numerica. In tutti gli sport, ma soprattutto nel basket, la morfologia e le caratteristiche degli atleti di vertice è cambiata dagli anni ‘80/’90 ad oggi. Serve in ogni ruolo sempre più velocità, forza, ecletticità, capacità di difendere in più posizioni e contro ogni avversario. Nella pallacanestro sono spariti i giganti statici e capaci solo di ingombrare l’area con la loro stazza. Colpa dello stile introdotto da Curry? Forse, in parte, ma probabilmente tale evoluzione è una conseguenza dipendente da vari fattori, in primis l’evoluzione delle tecniche e metodologie di preparazione fisica e alimentazione, non solo dal vincente sistema Warriors. La conseguenza di questa evoluzione atletica è che per fare canestro occorre sempre più aprire il campo, sfruttarne più aree, prendersi un vantaggio di tempo, posizionamento e abbinamento difensivo sull’avversario. In parole povere occorre essere credibili anche da più lontano da canestro. Curry è, in questo senso, l’arma letale. Il giocatore giusto al momento giusto. Altrimenti non si spiegherebbe perché tutte le squadre NBA abbiano progressivamente adottato il tiro da 3 come primaria arma offensiva senza avere in roster un giocatore come Curry. Riprova ne è che nel corso della stagione da poco interrotta la media dei tiri dalla lunga distanza presi dalle squadre a gara siano stati 33,9. Solo 5 anni fa erano 22,4, in aumento del 51,3%. La questione non è dunque Stephen Curry, certamente la rappresentazione vivente di un’idea di pallacanestro basata su grande mobilità e tiri “ignoranti” – quelli tanto cari al cestita italiano Vincenzo Basile -, ma quanto sia meglio ricercare sul parquet le conclusioni a più alta efficienza. Facciamo un’ipotesi basata su statistiche reali: in NBA si sta tirando da 3 con il 35,7% per cento, significa che ad ogni tiro si realizzano mediamente 1,07 punti. Se confrontiamo questa statistica con il tiro da 2 realizzato al 52,3% che restituisce 1,05 punti, abbiamo la conferma che il tiro oltre l’arco è, seppur di poco, più efficiente del tiro da 2. Certamente occorre affermare che di tiri da 2 punti ne esistono di diverso tipo – da dentro il pitturato o dal mid range – ma questa valutazione non fa che confermare la bontà delle conclusioni da lontano. I tiri dai 4-5 metri raramente infatti hanno percentuali di realizzazione superiori al 50%. A patto di tirare con una percentuale realizzativa significativa, concludere azioni da oltre l’arco è in generale una scelta migliore.

Curry è stato quindi il giocatore ideale per essere motore di un’innovazione che probabilmente stava da tempo sotto agli occhi di tutti e che nessuno aveva perseguito con chiaro spirito esplorativo. Qualche geniale coach di College negli anni ’90 aveva provato a realizzare sistemi di gioco basati su un’estremizzazione di alcuni concetti similari – assenza di ruoli specifici, grande atletismo,solo contropiede e tiro da 3, addirittura accettando la difesa 4 contro 5 per poter rilanciare l’azione offensiva con il 5° uomo già vicino al canestro avversario in modo da generare un tiro uncontested – ma il basso profilo nazionale di questi progetti e, va detto, gli esiti non sempre brillanti, avevano fatto propendere tutti gli head coach di vertice per sistemi tradizionali. Dopo l’avvento di Curry è come se l’intera Lega Nba si sia svegliata dal torpore e abbia finalmente messo in luce che a livello statistico, se tiri con oltre il 33% da 3 quando da 2 tiri con il 50%, conviene tirare da 3. Le cose sono certamente più complesse in campo, ma l’ovvietà matematica non mente.

La conseguenza? le squadre oggi cercano soprattutto tiri da 3 accettando anche svantaggi in termini di posizionamento a rimbalzo o tiri in transizione tali da portare i giocatori più vicino possibile a canestro, cioè tiri da 2 punti ad alta percentuale. Lo spettacolo? Beh, va ricercato altrove perché l’applicazione di questo sistema non è proprio da tutti, non da chi non è Curry e non ha il roster dei Golden State Warriors, ovvero un quintetto di passatori sopraffini. Il modello, applicato da esecutori limitati, si trasforma facilmente in un run & gun tipico dei playground di periferia, alla lunga estremamente noioso, utile solamente a gratificare l’ego smisurato di molti presunti campioni.