Il caso Manduca, un fallimento tutto italiano
Il caso di Marianna Manduca, uccisa dal marito, ci impone di riflettere sul senso della giustizia in Italia.
Il caso di Marianna Manduca, uccisa dal marito, ci impone di riflettere sul senso della giustizia in Italia.
Il caso di Marianna Manduca dimostra come lo scollamento tra legge e diritto alla propria incolumità sia netto.
Il 3 ottobre 2007 Marianna Manduca viene uccisa da Saverio Nolfo, il marito. L’uxoricida viene condannato a 21 anni di carcere. Ennesimo caso, terribile, di “femminicidio”, a cui si aggiunge una notizia che lascia interdetti: i tre orfani della povera Marianna dovranno restituire i soldi del risarcimento dalla Presidenza del Consiglio di circa 250mila euro – stabilito dalla sentenza di primo grado che aveva condannato la Presidenza del Consiglio per non aver protetto la donna nonostante le dodici, dicesi dodici, denunce, tutte circostanziate, per violenze e minacce –.
La Corte d’appello di Messina, nel marzo 2019, aveva annullato il risarcimento a seguito del ricorso da parte della Presidenza del Consiglio, con motivazioni che fanno davvero riflettere: non sono sufficienti le dodici denunce, le minacce di morte, le intimidazioni col coltello a mettere in atto strategie di difesa della donna, un po’ per un quadro normativo lacunoso (all’epoca non esisteva la legge sullo stalking) e un po’ perché la Corte ha ritenuto che l’epilogo mortale della vicenda sarebbe rimasto immutato. Inoltre, il coltello, arma con cui è stata uccisa Marianna, era diverso da quello a serramanico utilizzato per minacce e il sequestro del coltello a serramanico non avrebbe impedito al Nolfo di procurarsene un altro.
I figli, che all’epoca del femminicidio avevano 3, 5 e 6 anni, ovviamente hanno già fatto ricorso e ora la sentenza è nelle mani della Cassazione che dovrà decidere sul risarcimento. Nei giorni scorsi il Procuratore della Corte di Cassazione ha chiesto ai giudici di accettare quella decisione, respingendo così la richiesta dei ragazzi.
Ecco, dunque: lo Stato, nella Corte di Appello di Messina, afferma che è stato fatto quanto era permesso dal quadro normativo dell’epoca. E, implicitamente, mette nero su bianco che, se uno ti vuole ammazzare e tu non apprezzi, e fai presente il tuo disappunto a chi ti dovrebbe tutelare, la legge non serve a niente se il tuo assassino è determinato e la norma approssimativa. Corollario: lo Stato, al cittadino indifeso, non serve a niente. Giustizia e legge viaggiano su piani diversi.
Sembrerebbe quasi che il diritto alla vita non valga granché (a meno che, naturalmente, non si tratti di autodeterminazione ed eutanasia, che allora pronti alle crociate perché si vive e si muore solo se qualcun altro mette un timbro). E dire che è proprio nei principi fondativi dello Stato moderno che viene affermato il contrario: già Montesquieu, nello Spirito delle leggi affermava che «la libertà politica, in un cittadino, consiste in quella tranquillità di spirito che proviene dalla convinzione […] della propria sicurezza». Locke dichiarava, nel Saggio sul governo, che certo nello Stato di natura «ognuno ha il diritto di punire gli offensori e rendersi esecutore della legge di natura»; ma per evitare il caos della giustizia fai da te Hobbes, credendo poco nella buona natura degli uomini, vedeva la necessità del Leviatano, ovvero della cessione del proprio diritto alla forza allo Stato. Ma attenzione: lo ammetteva nella misura in cui questo Stato fosse in grado di garantire la sicurezza degli individui.
Ora, qui nessuno aspira a uno scenario tipo Minority Report, film con Tom Cruise, in cui si era arrestati poco prima di compiere un delitto grazie a poteri sovrannaturali di predizione. Nel caso di Marianna il rischio era quasi una certezza. Dodici denunce, con testimoni. E se non era possibile incarcerare l’aspirante uxoricida, si poteva dare una nuova identità alla donna e trasferirla altrove con la famiglia. Si poteva, magari, spostare l’assassino lontano con obbligo di firma. Ci sarebbe voluto uno sforzo oltre la semplice norma e anche per questo, oggi, c’è il Codice Rosso. Avrebbe cambiato davvero qualcosa? Probabilmente sì, come ammette la Corte quando dice che «occorre tener conto della normativa dell’epoca […] che non consentiva l’applicazione di misure cautelari». Ma siccome la norma non c’era, tanto peggio per lei. Le carte sono a posto.
Non si vuole, qui, nemmeno sposare la linea politica della bestia che trasformi l’Italia in uno spaghetti western, ci sono già troppe armi e troppi esaltati in giro. Quello che è francamente inaccettabile è un’idea di giustizia che cancelli la figura della vittima come detentrice del diritto alla sicurezza. Qui, come in altri casi, tutta l’attenzione della magistratura sembra sospesa nell’attesa di quell’attimo in cui l’uomo con la pistola decide o meno di premere il grilletto, del momento in cui può o meno trasformarsi da aspirante reo a reo colto in flagranza di reato. Il diritto alla sicurezza del cittadino inerme si è trasformato nel diritto di esercitare o meno il libero arbitrio di fare il male.