L’epopea del Capitalismo e i primi segni di logoramento
Dal Piano Marshall alla crisi finanziaria del 2008, la storia economico-sociale che ha portato fino ai giorni nostri, giunta al suo secondo appuntamento.
Dal Piano Marshall alla crisi finanziaria del 2008, la storia economico-sociale che ha portato fino ai giorni nostri, giunta al suo secondo appuntamento.
Per comprendere come gli Stati e la Unione Europea possano intervenire per porre fine alla crisi e rigenerare crescita duratura, occorre prima di tutto capire i mali delle nostre economie, andando alla radice del problema. Nessuno vuole ammetterlo, ma il Capitalismo così come concepito negli ultimi decenni non è più la risposta corretta, va superato. La teorizzazione della crescita infinita, che solo un ventennio addietro era assioma che accomunava molti tecnici, è stata smentita perentoriamente dai fatti. Il nostro sistema è quindi su dei binari che conducono al nulla, è una rotta che ci permette di sopravvivere, ma che non può farci invertire. Per superare il Capitalismo e ideare nuovi schemi e modelli a cui rivolgerci, proveremo innanzitutto a comprendere le origini del sistema fin qui adottato.
Dalla fine della Seconda Guerra mondiale, attraverso l’European Recovery Program, meglio noto come Piano Marshall, gli Stati Uniti trasferirono ingenti quantità di denaro sui Paesi europei del blocco occidentale. L’obiettivo era fidelizzarli contro lo spauracchio comunista, ma anche garantirsi un mercato forte di esportazioni verso l’Europa. Va detto che gli Stati Uniti all’epoca non se la stavano passando benissimo, le aziende faticavano a vendere la loro produzione e la disoccupazione era in costante aumento. Con il Piano Marshall gli Stati Uniti, definendo che i finanziamenti previsti, per lo più a fondo perduto, obbligassero i beneficiari a forniture made in U.s.a, assicurarono quindi uno sviluppo pluriennale e certo alla loro economia.
Dal 1947 al 1951 l’investimento americano fu superiore ai 12 miliardi di dollari, una cifra significativa oggi, figuriamoci all’epoca. Da un lato si garantiva una ripresa a tutti quegli stati devastati dalla Guerra, dall’altra si alimentava l’economia Occidentale mettendo le basi per quello che poi divenne boom economico e successivamente consumismo. Il Piano Marshall. fu un vero successo: il benessere dilagò e migliorò l’aspettativa e la qualità della vita, attraverso una lunga fase che l’Europa filo Occidentale visse fino agli anni Ottanta. In tempi di Guerra Fredda e di necessità di schierarsi, l’Italia rimase dunque sotto il controllo e la supervisione degli Stati Uniti, forse molto di più di quanto la Storia abbia potuto certificare: barattando una riduzione di sovranità, si garantì un boom economico e uno sviluppo senza pari. Ogni stato europeo del blocco occidentale in quegli anni generava surplus e, ottimista per il futuro, si indebitava (Italia su tutti) investendo sulle proprie infrastrutture e creando welfare, utile a conseguire consenso politico.
Pace e prosperità, si direbbe nelle letture per bambini. Non fu solo una favola, fu davvero così: si diffusero i diritti sindacali, i sistemi scolastici gratuiti, la sanità pubblica. Una vera e propria età dell’oro per i cittadini, figlia dell’adozione di un sistema votato al Capitalismo. A tale benessere gli europei si abituarono prontamente e l’economia crebbe sempre più sulle ali dell’entusiasmo. La crescita nella percezione comune diventò standard, condizione abituale. L’Occidente aveva saputo creare un sistema economico globale in cui la maggior parte dei cittadini godevano di capacità di spesa e questo permetteva alle aziende di crescere, di aumentare costantemente la produzione e di riuscire a venderla creando valore. Si alimentò un volano di sviluppo grazie a mercati via via sempre più globalizzati (Stati Uniti in primis, che non solo furono esportatori, ma diventarono poi fondamentali importatori). Si era avviata quella che alcuni economisti hanno definito trottola, un meccanismo di mercato dal vortice frenetico e in apparente inarrestabilità. Come per tutte le favole però, l’età dell’oro durò a lungo, ma non fu infinita.
Ci fu un primo segnale di inversione, inascoltato all’epoca, ma che la Storia ha poi rivalutato: la rivolta dei minatori in Gran Bretagna a cavallo tra il 1984 e il 1985. Le richieste degli operai superavano la volontà e la capacità dello Stato di esaudirle. Fu lotta dura, ma soprattutto un primo segnale che qualcosa non andava. Dopo pochi mesi, venne derubricato a faccenda locale. Poi, tra qualche incertezza, ma anche tanto sviluppo tecnologico, la trottola delle grandi economie mondiali proseguì la sua marcia fino al 2001. Decennio ancora una volta dorato, in cui il mercato basò le sue fortune sulla capacità di generare nuove esigenze di consumo di beni e servizi, spesso accessori, effimeri. Il sistema, a prima vista funzionava, ma si stava sempre più discostando dall’economia reale, agricola e industriale. I capitali andarono progressivamente concentrandosi sempre più nelle mani di pochi e gli Stati cominciarono a comprendere l’impossibilità di generare surplus sufficiente per garantire il welfare. In Italia la soluzione fu indebitarsi senza controllo per evitare di modificare le percezioni dei cittadini e garantirsi maggiore consenso possibile. L’attentato terroristico alle Torri Gemelle, l’attacco alla finanza, al luogo simbolo del potere economico, delle lobby, delle banche, degli istituti di rating, fu il momento simbolo di un cambio di epoca. Fu come mettere un chicco di sabbia lungo la strada della trottola che, senza preavviso, franò a terra. La crisi si manifestò ancor più lampante tra il 2007 e il 2008. Lo capirono tutti, grazie all’iconica immagine dei dipendenti Lehmann & Brothers che abbandonano il posto di lavoro, riponendo le proprie cose in un umile cartone. Intanto, con effetto domino incontrollabile, le difficoltà si estesero a tutto il sistema; prima la finanza, poi a cascata tutti vennero coinvolti, dalla grande azienda, al piccolo artigiano. Ci si rese conto che la concentrazione dei capitali in mano a pochi riduceva progressivamente i mercati di sbocco e che la new economy e altre analoghe fasi già vissute altro non erano che bolle destinate a scoppiare fragorosamente.
D’altra parte, per alimentare la corsa della trottola, esaurita la capacità di generare surplus reale, si era tentato di attribuire valore ad elementi meno concreti quali utenti, profili, numero di iscritti. Le leggi dell’economia però non mentono e, se si valorizza tanto qualcosa di effimero, la tragedia è dietro l’angolo. Il Capitalismo finisce infatti in ginocchio. Per gli Stati non c’è davvero più spazio per finanziare il welfare e tutti ne risentono, specie in Italia dove si era “cicaleggiato” un po’ troppo nei tempi d’oro. Tagli alla sanità, all’istruzione, aumento del prelievo fiscale, riduzione delle garanzie sindacali dominano lo scenario: il lavoro non c’è, non c’è sindacato che possa salvare i posti. In Italia, e non solo, i Governi si succedono senza continuità a causa di una montante contestazione. Chi amministra è giudicato colpevole, chi sta al potere si brucia velocemente.
Siamo quindi tornati ai giorni nostri in cui, a fronte di un sistema capitalistico in declino, la domanda, finora senza risposta, è come far ripartire lo sviluppo e a quale modello di sviluppo riferirsi.