Il fenomeno degli opinionisti pop
In un'epoca in cui le competenze in politica non sono più considerate importanti, chiunque può assumere il ruolo di opinionista. Persino gli "autorevoli" personaggi dello star system italiano.
In un'epoca in cui le competenze in politica non sono più considerate importanti, chiunque può assumere il ruolo di opinionista. Persino gli "autorevoli" personaggi dello star system italiano.
In Italia si assiste a nuovo fenomeno, correlato all’avanzata della cosiddetta “Politica della gente” e sul quale fino a ora si è riflettuto poco: la citatissima categoria di opinionisti pop. Stiamo parlando di tutta quella pletora di personaggi provenienti dal mondo dello spettacolo che vengono interpellati e ascoltati dai mezzi di informazione mainstream come fossero autorevoli opinionisti in campo politico e sociale. L’ultimo ad aggiungersi alla lista è stato l’esperto di musica Red Ronnie che ha fatto coming out sovranista pochi giorni fa. Prima di lui abbiamo sentito Massimo Boldi, il simpatico “cipollino” per anni spalla di Teo Teocoli prima e di Christian De Sica poi, prendere una netta posizione contro il movimento delle “Sardine”. E prima ancora gli esempi si sprecano. Lorella Cuccarini ha fatto un endorsement sovranista e da allora è una nuova maître a pensér del “pensare altrimenti” che si oppone al “pensiero unico”. Praticamente un overload di pensiero. Al Bano già da anni ha saldamente occupato la riva sovranista della canzone melodica italiana, con ammiccamenti verso Mosca, paradiso in terra dei sovranisti europei. Jerry Calà addirittura si è lamentato di come la sua collocazione politica non progressista lo abbia ostracizzato nell’ambiente artistico, e solo l’immaginazione ci può aiutare a figurarci che sarebbe stato il mondo del cinema se Stanley Kubrick, squarciando l’ostracismo del pensiero unico di sinistra, fosse venuto a conoscenza del suo celebre motto «Capitooooo??». Un po’ come chiedersi che sarebbe stato L’uomo senza qualità se Musil lo avesse terminato.
La schiera di giullari e ballerine engagé è folta pure a sinistra, area politica dove si radica storicamente l’impegno sociale. Francesca Neri, Sabrina Ferilli, Fiorella Mannoia (quest’ultima per la verità crossover tra area lefty e suggestioni pentastellate) sono solo alcune delle star di sinistra i cui illuminanti pareri su politica, sistemi elettorali, riforma costituzionali, filosofie di vita e chi più ne ha, più ne metta vengono periodicamente rilanciati dai media mainstream. Che hanno in comune gli alfieri del sovranismo che si battono contro il pensiero unico con gli alfieri del pensiero unico che si battono contro il sovranismo? Quello di c’entrare con l’analisi politico-sociale quanto Adinolfi c’entra con un circolo Arcigay. Cioè assolutamente nulla. Chi scrive è in perfetta sintonia con lo zeitgeist, che vede la figura del “dilettante” catapultata ai vertici della piramide sociale. Nei precedenti contributi “L’era di Medioman” (https://ilnazionale.net/attualita-e-politica/lera-di-medioman/) e “Il valore della conoscenza” (https://ilnazionale.net/attualita-e-politica/il-valore-della-conoscenza/) si era già cercato di analizzare il tema del declino delle competenze che pare essere una caratteristica peculiare della nostra epoca post ideologica. Gli anni della cortina di ferro saranno stati tragici, ma gli spiegoni sul senso della vita e sulla collocazione dell’uomo nel sistema-mondo ce li facevano Adorno, Camus, Sartre, Habermas o Horkenheim. Ora i nostri fari si chiamano Boldi, Al Bano, Cuccarini, Ferilli o Mannoia. Al più Fusaro o Fabio Volo, e non che sia esattamente un upgrade. Allora la domanda è: cosa è andato storto? Perché nell’era in cui le informazioni sono disponibili con un semplice “click” Massimo Boldi o Al Bano vengono considerati (o spacciati) come commentatore politici autorevoli?
In principio ci fu il talk show, quel format televisivo basato sulla chiacchiera (cioè sul nulla) nel quale una serie di ospiti discetta su ogni aspetto dello scibile umano sotto la regia del conduttore. Fino nelle sue ultime declinazioni da tabloid scandalistico in 3D tipo quelli condotti da Barbara D’Urso, il talk show ha sdoganato una narrazione per la quale le opinioni di una serie di tizi senza nessuna competenza specifica diventano autorevoli solo per il fatto di essere trasmesse dal media televisivo. Il Maurizio Costanzo show ebbe una parte molto importante in questa deriva. Questo genere si è poi ulteriormente banalizzato e abbassato di livello (qualora fosse possibile) con i reality show, nei quali i dialoghi di una pletora di perfetti sconosciuti sulla quale sono puntate le telecamere 24 ore su 24 diventano oggetto di intrattenimento e di analisi sociologica. L’ermeneutica del nulla. La loro autorevolezza sta nel fatto che sono trasmessi in TV. Se il talk show presenta come opinionisti personaggi che derivano la loro patente di credibilità dal far parte del mondo dello spettacolo, nel reality questa ultima parvenza di autorevolezza sparisce completamente. L’uomo della strada come maestro di vita. Il minimo comun denominatore tra queste figure è il far parte di quella che Guy Debord con un’intuizione fulminante definì «La società dello spettacolo».
E qui a parere di chi scrive si può cogliere il nodo della questione. I fenomeni paralleli della spettacolarizzazione della politica e del declino delle competenze, che, guarda caso, sono ingredienti fondamentali del brodo post-ideologico da cui sono emersi i cosiddetti populismi, hanno guidato l’ascesa del personaggio dello spettacolo al ruolo di opinionista. Attenzione però: nessuno dei due ingredienti è peculiare dell’epoca in cui viviamo. Sartori già 20 anni fa parlava di Telepolitica. Oggi si potrebbe tranquillamente parlare di Webpolitica. In ogni caso lo spettacolo è la cifra della nostra epoca. Ciò spiega anche l’ascesa sociale di una nuova figura moderna, quella del “comunicatore” che nel suo ruolo demiurgico di “creatore di eventi” è a tutti gli effetti un regista, quindi un attore del mondo dello spettacolo. Affermare che la politica sia spettacolo non è particolarmente nuovo e neppure originale. Basta scorrere i profili social dei personaggi politici più noti per rendersi conto che perfino nella mimica facciale sono maschere, intrattenitori o saltimbanchi che non offrono certezze ma rappresentazioni. Quindi quali interpreti migliori della modernità se non i personaggi dell’intrattenimento? I quali uniscono due pregi: quello dell’esser maschere e l’assoluta incompetenza rispetto a ciò di cui discettano. Proponendo quindi un linguaggio assolutamente comprensibile al medioman che è l’autentico prodotto della società dello spettacolo. Un loop, o un cortocircuito, da cui si esce solamente con il recupero della competenza. Ma questa è già un’altra storia, oltre che il compito più difficile.
P.S. Mentre questa riflessione sta per essere pubblicata, giunge la notizia che Barbara D’Urso è stata incoronata da un sondaggio del “Corriere della Sera” “Personaggio TV più influente del decennio”. Un cerchio si chiude. Tutto è parte dello zeitgeist.