Quarant’anni fa nacque un mito. Quello dell’inviato di guerra Ettore Mo, che proprio nell’agosto del 1979 partiva per il suo primo incarico: la missione in Iran. Da allora ad oggi Mo ha saputo come pochi altri raccontare il mondo, nelle sue molteplici sfaccettature, con uno sguardo quasi sempre concentrato sui territori del pianeta martoriati dalle guerre e non solo. Un animo indomito, il suo… un animo libero, incapace di rimanere ancorato ad una città, ad un territorio. I suoi reportage sono memorabili perchè i suoi occhi da viaggiatore sono gli occhi curiosi di chi non si vuole fermare alle apparenze, ma desidera approfondire. Fino in fondo.

Nativo di Borgomanero, in provincia di Novara, l’oggi 87enne Ettore Mo è stato sempre spinto da un cuore cosmopolita ad esplorare il mondo: da Venezia a Parigi, da Milano a Jersey, da Amburgo a Londra, confidando in quel suo spirito d’adattamento e nella sua versatilità che l’hanno sempre contraddistinto. Con un “curriculum vitae” davvero trasversale – in cui emergono, fra gli altri, anche lavori come cameriere, bibliotecario, infermiere e insegnante di francese – Ettore Mo si presenta a Piero Ottone, corrispondente in Gran Bretagna del Corriere della Sera, per ottenere un posto come giornalista. La sua brillante carriera inizia con una lunga e dura gavetta, svolta con passione ma sempre in punta di piedi. Fa ben presto  sue massime come quelle di Egisto Corradi, “il vero giornalismo si fa con la suola delle scarpe”, o di Robert Capa, “non esistono foto belle o brutte, ma solo foto prese da lontano e foto prese da vicino”. Viene investito del primo incarico come inviato speciale nel 1979: Franco Di Bella, allora direttore del giornale di Via Solferino, decide di provare la penna di Mo e lo invia nel turbine della rivoluzione di Teheran. Nonostante la non più verdissima età, una costituzione robusta e un’indole che si rivela in realtà assai giovanile lo supportano, successivamente, nel suo girovagare, all’inseguimento delle più sanguinose guerriglie del pianeta: così va dall’Afganistan al Tibet, dall’ex Jugoslavia alla Cecenia, dal Kazakistan a Timor Est.

Ciò che rende gli articoli di Ettore Mo importanti pagine di storia contemporanea é la veridicità con cui ci vengono narrati episodi di vita reale, che non hanno la presunzione di spiegare una nazione o un popolo, ma ne dipingono tratti caratteristici ed essenziali. Con uno stile apparentemente scarno Ettore Mo ha regalato ai suoi lettori sfumature ed emozioni profonde, molto più di quanto non facciano le immagini che quotidianamente propongono i mass media. Negli anni ha costituito, insieme al fotografo Luigi Baldelli, una formidabile coppia di reporter che periodicamente raccoglie i propri reportage in volumi che definire imperdibili è poco.

Ettore Mo, per 40 anni lei ha girato il mondo alla scoperta di un’umanità spesso relegata ai margini. Perché questa scelta?

«Lo stimolo di ogni viaggio è quello di raccontare una vicenda che le agenzie di stampa, in genere, lanciano sbrigativamente. Quelle vicende, molto spesso, rappresentano un intero mondo, fatto di sogni, speranze, sentimenti. Sono storie che appartengono alla parte più buia dell’umanità, che provengono dai quattro angoli del pianeta e che, dal mio punto di vista, vale la pena raccontare.»

Ma cosa significa, oggi, essere giornalista di frontiera?

«È sicuramente più difficile che in passato. Con queste nuove tecnologie si è sviluppata anche una competizione accesa. E poi c’è molta più fretta: si deve dare la notizia subito e spesso, per soddisfare questa esigenza, non si approfondisce abbastanza. Per fortuna, data anche la mia età, non ho mai scritto su argomenti di grande attualità. Mi sono sempre riservato i miei spazi per raccontare storie. Questo mi ha permesso di fare un giornalismo diverso e il mio lettore ha avuto l’occasione di conoscere cose che gli altri giornalisti di solito non raccontano. Essere testimoni di un grande avvenimento internazionale come una guerra in Iraq o in Afghanistan, riempie di orgoglio: si sa, la vanità di finire in prima pagina… è capitato anche a me, in passato, ma con il tempo poi questi aspetti non interessano più. Ho girato il mondo con Baldelli alla ricerca di personaggi o eventi che possano stuzzicare la nostra immaginazione. Posso affermare con sicurezza che, il nostro, non è mai risulto un lavoro superficiale.»

Qual è, solitamente, l’impatto con un nuovo paese?

«Mi è capitato, a volte, di arrivare in posti sperduti, ai confini del mondo, e chiedermi con rammarico: “Ma cosa sono venuto a fare qua?”. L’iniziale sensazione di fallimento, però, ben presto svaniva: cominciavo a gironzolare, a parlare con la gente del luogo, a creare i primi contatti e a scavare nell’animo delle persone. Tendevo ad isolare una certa storia e mi autocaricavo di sensazioni, che prima o poi avrei riversato nell’articolo. Preferisco in generale appartarmi un po’ dai grandi avvenimenti, e, al tempo stesso, raccontare questo mondo un po’ nell’ombra.»

Lei è stato in Sudamerica e in Africa, in Medio Oriente e nel Sud-Est Asiatico… ma ha legato il suo nome più che ad ogni altra nazione, soprattutto all’Afghanistan. Per quale motivo?

«L’Afghanistan è parte integrante della mia vita. In questo paese vi ho speso moltissimo tempo. La vicenda affascinante di un piccolo paese attaccato dall’Unione Sovietica, all’epoca considerata la seconda potenza mondiale. Il popolo afgano ha sempre sofferto i tentativi di dominazione straniera: prima sono arrivati gli inglesi, poi i russi. Un paese malato, triste, ma molto generoso. Mi sono sempre trovato bene, nonostante gli enormi disagi che il suo territorio comporta. L’Afghanistan, più che rischio, è soprattutto fatica: con i Mujaddyn ero abbastanza al sicuro, appartato, ma quanta ora passate a camminare sulle aride montagne!»

La sua vita da giornalista è legata a filo doppio a quella di Massud, il mitico “Leone del Panshir”…

«Si, è vero. Ho conosciuto Massud nell’81 quando aveva 27 anni e dall’84 in poi sono tornato ogni anno a trovarlo. Nonostante il suo carattere riservato siamo diventati amici. Un anno dopo la sua morte (9 settembre 2001, due giorni prima della tragedia delle Torri Gemelle di New York, ndr) sono stato a Kabul ed ho incontrato l’amico che era con lui il giorno in cui subì l’attentato. Gli chiesi di cosa avessero parlato la notte precedente: “Dante Alighieri e Victor Hugo” fu la risposta, che tratteggia un personaggio dai contorni davvero particolari.»

Massud, il Leone del Panshir

Oltre all’Afghanistan, quale altra nazione ha colpito la sua immaginazione?

«Sono rimasto affascinato dal Tibet. La bellezza delle loro montagne è incredibile, ma in particolare mi ha impressionato la grande serenità della popolazione: ho visto donne con i bambini sulla schiena arrampicarsi su altipiani alti 4mila metri, senza mostrare un minimo di fatica, soltanto per andare ad accendere una candela davanti alla statua di Buddah. Ciò che risalta, sopra ogni altra cosa, è il loro dolcissimo e sincero sorriso.»