Il nuovo avanza con le abitudini del vecchio
Quanto realmente discontinua è stata l’azione del primo governo populista della storia repubblicana rispetto ai governi che lo hanno preceduto?
Quanto realmente discontinua è stata l’azione del primo governo populista della storia repubblicana rispetto ai governi che lo hanno preceduto?
Il dibattito politico e culturale nella pubblica opinione ormai da anni si è sclerotizzato sul tema del “populismo” e della novità costituita dall’irrompere nello spazio politico occidentale dei movimenti antisistema che a tale categoria politica si rifanno. A parere di chi scrive sembra quasi che in qualche modo la cultura occidentale stia compiendo un rito di esorcismo collettivo nei confronti del “populismo”, per poterlo in qualche modo relegare nella categoria “dell’Altro” rispetto a quella che viene considerata la politica tradizionale, rappresentata dai partiti istituzionali post ’89, di ispirazione popolare e di collocazione centrista o quelli socialdemocratici che si collocano in un’area che potremmo definire di sinistra “light”.
Ma è proprio così? Siamo veramente sicuri che il populismo rappresenti qualcosa di radicalmente “Altro” rispetto ai movimenti politici che siamo abituati a considerare come “tradizionali”?
Sulle pagine virtuali di questa testata già avevamo scritto a riguardo degli importanti contributi di Federico Finchelstein (“dal fascismo al populismo (e ritorno)?), il quale ribaltava l’ottica di osservazione eurocentrica che caratterizza la grande maggioranza degli studi sul populismo, assegnando alle esperienze Sudamericane una sorta di ruolo di primogenitura del fenomeno. L’Italia, come abbiamo avuto modo di ripetere spesso, ci fornisce un punto di osservazione di eccezione, in quanto essa è la prima Nazione europea dove movimenti che esplicitamente rivendicano il loro essere “populisti” hanno assunto responsabilità di governo.
Scopo di questa nostra breve ricognizione è di valutare quanto realmente discontinua è stata l’azione del primo governo populista della storia repubblicana rispetto ai governi che lo hanno preceduto. Al suo insediamento il primo ministro Conte si è autoproclamato “avvocato degli italiani”. È difficile evitare l’analogia con il “Contratto con gli Italiani” siglato da Berlusconi nella trasmissione “Porta a porta” prima delle elezioni politiche del maggio del 2001, se non altro per l’utilizzo di termini mutuati dal linguaggio tecnico-giuridico.
Si è poi insistito molto sui media mainstream riguardo rapporto radicalmente ostile che i movimenti populisti hanno con gli organismi tecnici dell’apparato statale, che subiscono una continua opera di delegittimazione in quanto “non eletti” (da cui il mantra salviniano “se pincopallo vuol far politica, si candidi e si faccia votare”) . Tuttavia nessuno ha spiegato in maniera convincente perché i piani leghisti di usare l’oro delle riserve di Stato per abbattere il debito pubblico o le critiche di M5S al sistema di vigilanza di Bankitalia sono pericolosi rigurgiti estremisti antidemocratici mossi contro apparati la cui indipendenza è garanzia di democrazia, mentre la richiesta della testa del governatore della banca d’Italia Visco che Renzi avanzò dopo la crisi delle banche toscane no. Boh, non si sa o non si capisce.
Vogliamo parlare di cooptazione? La critica che spesso si avanza ai movimenti populisti è che il loro sistema di assegnazione degli incarichi non è basato sulla meritocrazia bensì sulla cooptazione. Come se durante la prima e la seconda repubblica la contiguità al “capo” non fosse l’unica condizione necessaria e sufficiente per l’avanzamento di carriera. Il berlusconismo di fidelizzazione al capo è nato e morto. Per non parlare della Lega (ora non più Nord) che si è sempre retta su un sistema verticale che al vertice aveva il segretario, dominus incontrastato del movimento. Ma è nelle politiche economiche che la linea di continuità tra “vecchio” e “nuovo” è più evidente. Da sempre la politica in Italia si basa su provvedimenti di carattere clientelare finanziati o con operazioni di redistribuzione del reddito (tasse) o a debito (emissione di debito pubblico).
Questo per motivi storici ben precisi, anche se spesso ignorati o elusi nel dibattito pubblico, ma sui quali torneremo. Cosa altro era il sistema pensionistico a maglie larghissime che consentiva di andare in pensiona a poco più di 50 anni e con un’indennità calcolata sull’ultima retribuzione percepita (sistema cosiddetto “retributivo”) in vigore fino a pochi anni fa e che ha riempito il modo del lavoro di pensionati baby, ancora perfettamente in grado di lavorare e che spesso lo facevano, in nero, alimentando sacche di elusione fiscale e sottraendo opportunità lavorative alle generazioni più giovani? (Ebbene sì, alimentiamo un po’ lo scontro intergenerazionale, è ora di dire chiaramente che le generazioni più vecchie in Italia hanno sistematicamente scaricato sulle spalle delle giovani il peso dei debiti da loro contratti per mantenere il tenore di vita al di sopra delle possibilità che avevano).
E i famosi 80 euro di Renzi? Non era un provvedimento che mirava a fidelizzare l’elettorato mediante l’uso della finanza pubblica? In cosa queste politiche sono differenti esattamente rispetto al “reddito di cittadinanza” oppure a “quota 100”, ovverosia gli ormai celebri (e piuttosto fallimentari) provvedimenti – bandiera del governo populista, l’uno di marca pentastellata, l’altro leghista –.
La stessa “flat tax”, ultimo cavallo di battaglia di Salvini altro non è che l’ennesimo provvedimento finanziato non attraverso un taglio della spesa pubblica, bensì a debito. E qui sul debito occorre fare un inciso. Pensare di finanziare la crescita economica con il debito ha la medesima paradossalità di pensare di smettere di fumare raddoppiando il numero di sigarette fumate. Un testo assai interessante uscito qualche anno fa, dal titolo Questa volta è diverso di Reinhart e Rogoff, ha messo in luce come tutte le crisi economiche degli ultimi otto secoli, nessuna esclusa, siano state causate da un eccesso di debito. E sono state tutte letali. Solo dei malconsigliati come Salvini e la sua pletora di economisti Voodoo sono convinti del contrario.
Gli esempi di sostanziale continuità tra le politiche del governo populista e quelle di chi li ha preceduti che potremmo fare sono ancora molti, ma tutti ci guiderebbero inevitabilmente verso una sola conclusione: i movimenti populisti, lungi dall’essere una radicale novità in totale discontinuità rispetto alla vecchia politica, ne sono in realtà l’estrema degenerazione.
Come una anomalia genetica, esasperano al sommo grado difetti che sono congeniti nel DNA della politica in Italia. Ma parlare di questi difetti è parlare del peccato originale della Nazione Italiana, sul quale sarà opportuno tornare.