New IRA e Brexit: capolinea per l'UK?
La Brexit potrebbe paradossalmente accelerare il processo di disintegrazione del Regno Unito. Per capirlo basterebbe studiare quanto sta accadendo in questi mesi in Irlanda del Nord
La Brexit potrebbe paradossalmente accelerare il processo di disintegrazione del Regno Unito. Per capirlo basterebbe studiare quanto sta accadendo in questi mesi in Irlanda del Nord
Non c’è nulla di particolarmente bello da vedere a West Belfast, il principale quartiere cattolico della città di Belfast. Una sequenza infinita di case monofamiliari a due piani in mattoni scuri, una uguale all’altra, a cui Falls Road fa da spina dorsale. Nulla tranne i murales. Dipinti a soggetto politico realizzati sulle pareti di alcune abitazioni e sui cosiddetti “Peace Walls”, muri eretti per separare fisicamente i quartieri protestanti da quelli cattolici. Autentici libri della memoria collettiva di un passato recente che non vuol passare. Nessuno a West Belfast sembra sapere dove siano, nessuno è disposto a dare indicazioni ai turisti per trovarli nel dedalo di vie tutte uguali dei quartieri cattolici della città.
La visita ai murales è monopolio dei “men in the black cars”, guide più o meno formali che conducono i turisti nella visita dei luoghi ove avvennero i principali eventi dei “Troubles”, la guerra a bassa intensità che dal 1969 al 1998 oppose il Regno Unito ai Repubblicani Nord-irlandesi. La dovizia di particolari con la quale raccontano degli eventi della guerra fa sospettare che possano essere stati ex guerriglieri, riciclatisi come guide turistiche. Il campo di battaglia come Disneyland.
Sono stato a West Belfast nell’agosto del 2018. Andarci è stata un’esperienza proustiana, un ricercare e riscoprire il vissuto che ha formato un adolescente degli anni Ottanta, che, come molti altri suoi coetanei, sentiva il bisogno di avere degli eroi. Eroi trovati guardando i telegiornali dell’epoca trasmettere servizi sugli “Hunger Strike” del carcere di Long Kesh: tra di loro c’era un ragazzo in fin di vita a causa di uno sciopero della fame autoimposto perché gli fossero riconosciuti dei diritti elementari; il giovane era stato avvolto in una sorta di materassino ad acqua per evitare che, a ogni minimo movimento, le ossa bucassero la pelle dei suoi arti ormai ridotti a scheletro.
Quell’adolescente, diventato poi uomo, ricorda ancor oggi la ferrea determinazione con cui l’allora premier inglese Margaret Thatcher, successivamente osannata come leader del liberalismo europeo, lasciò morire di fame in carcere il ragazzo divenuto nel frattempo membro eletto del parlamento di Sua Maestà Britannica, rifiutandosi di concedergli gli elementari diritti di prigioniero politico quale era. Di quel ragazzo ricordo perfettamente i funerali, in cui una bara pesante poco più del legno di cui era fatta veniva portata in spalla dai suoi camerati dell’IRA.
I giorni in cui ero a West Belfast nelle aree cattoliche le bandiere irlandesi si alternavano a quelle nere a lutto perché ricorrevano le commemorazioni del massacro di Ballymurphy, quartiere della città dove tra il 9 e l’11 agosto del 1971 i paracadutisti del 1° reggimento di Sua Maestà Britannica uccisero 11 cittadini cattolici inermi durante una manifestazione per i diritti civili. Il medesimo reparto il 30 gennaio 1972 a Derry uccise altri 13 cittadini inermi – un quattordicesimo morì mesi dopo per le ferite – in quello successivamente ricordato come il “Bloody Sunday”, divenuto il soggetto di una canzone mainstream della band irlandese degli U2. Massacri di civili inermi per i quali nessun militare britannico è mai stato chiamato a rispondere.
I “Troubles” furono la nemesi dell’Impero Britannico ormai al suo tramonto. Ammainata ovunque l’Union Jack, umiliate con la crisi di Suez le ultime velleità di potenza britanniche, la nostalgia di un passato imperiale ormai tramontato rimaneva viva aggrappandosi con le unghie e con i denti a un pugno di scogli dispersi negli oceani e alle sei contee dell’Ulster, che erano rimaste gli ultimi pallidi simulacri del dominio globale di Sua Maestà Britannica, vestigia dall’interesse puramente archeologico di un’epoca ormai finita per sempre. Tale nostalgia nel 1982, nel pieno della violenza dei “Troubles”, condusse il Regno Britannico a combattere con l’Argentina una breve guerra per il possesso di un remoto (e assolutamente inutile) arcipelago nel sud dell’Atlantico, divenuto per l’immaginario inglese il simbolo della memoria di un passato di dominazione imperiale.
Negli anni in cui la coscienza del mondo si indignava per l’iniquo regime di Apartheid in Sudafrica, con il quale l’élite dominante bianca manteneva in condizioni di semischiavitù e privava dei diritti civili elementari la maggioranza nera, la civile nazione britannica appartenente al consesso europeo teneva una parte dei suoi concittadini cattolici residenti nell’Ulster in una condizione di segregazione di fatto simile a quella dei neri in Sudafrica. Da un lato in quartieri lindi e ordinati della borghesia protestante. Dall’altro, separato fisicamente dai “Peace Walls”, il sottoproletariato cattolico rinchiuso nei suoi “bantustans”. L’Ulster era l’ultima colonia nella quale i paracadutisti di Sua Maestà nell’Europa del XX secolo si comportavano con i loro concittadini “come con gli zulù in Africa”. Ultimo lacerto di una dominazione imperiale ormai morente, mantenuto in vita dal sangue della minoranza cattolica, con l’unico scopo di dare un senso all’esistenza di una nazione, la quale del suo impero coloniale aveva fatto ragione d’essere, ma dopo la decolonizzazione si era riscoperta improvvisamente nuda della sua pretesa eccezionalità storica.
Nel 1998, con il “Good Friday Agreement”, si pose fine alla guerra tra nazionalisti cattolici e unionisti protestanti, istituendo in Ulster una sorta di condominio anglo-irlandese, prevedendo tra le altre cose l’abolizione del confine fisico tra Ulster ed Eire, in modo tale che fosse consentito il libero passaggio tre le due parti d’Irlanda. Soluzione che, fisicamente, ricuciva l’unità dell’isola verde separata in due parti distinte dal 1922, anno dell’indipendenza dell’Eire dall’UK. Nonostante ciò, come chiunque abbia camminato per le strade di Belfast sa perfettamente, la separazione fisica tra cattolici e protestanti è ancora netta. Le comunità non si mescolano e i “Peace Walls” sono ancora al loro posto per dividerle. La violenza politica non è mai cessata, si è solo attenuata. E i motivi di rancore della minoranza cattolica nei confronti della borghesia protestante sono ben lungi dall’essersi risolti. Ora a Belfast c’è un sindaco donna appartenente al Sinn Féin, il braccio politico della Provisional IRA, la fazione dissidente nata da una scissione dell’IRA, che fu la principale forza armata nazionalista nord irlandese durante i “Troubles”, guidata in passato da Jerry Adams, lo stratega che portò agli accordi di pace del Venerdì Santo, anche con azioni di spregiudicato cinismo. Come quando, da responsabile militare di Belfast, allo scoppiare dei disordini si rifiutò di far intervenire i tiratori dell’IRA per proteggere i quartieri cattolici dalle violenze dei paramilitari protestanti, in modo tale da radicalizzare il conflitto e attrarre il consenso anche di chi nella comunità cattolica fino a quale momento non era stato favorevole alla lotta armata.
«Quando il combattimento era finito niente era risolto, ma niente importava» scrive Chuck Palanhiuk in Fight Club. La sensazione a Belfast è proprio questa. Nulla è risolto. Questo equilibrio irrisolto nel 2016 è stato sconvolto dal referendum per la Brexit, cioè l’uscita della Gran Bretagna dalla UE. Iniziata come una faida di potere nel partito conservatore, attraverso la quale Cameron voleva liquidare i nemici interni che puntavano a sottrargli la dirigenza del partito, è sfuggita dalle mani sia di chi l’ha proposta sia di chi, come Nigel Farage, l’ha cavalcata con il suo movimento populista e, molto probabilmente contro le sue stesse aspettative, l’ha ottenuta. La (ormai ex) Gran Bretagna profonda, resa inquieta da mai del tutto sopite velleità imperiali, si era convinta che solo fuori dall’UE avrebbe potuto ritrovare il suo “destino manifesto” smarrito negli anni della decolonizzazione, incolpando la stessa UE di essere un freno alle sue aspirazioni di tornare una potenza globale come era stata in passato.
Tuttavia, la decisione della maggioranza degli Inglesi di abbandonare l’UE pone un problema impossibile da risolvere per lo status dell’Ulster come è stato definito dagli accordi di pace del 1998. Infatti all’uscita del Regno Unito dall’UE corrisponderebbe la creazione di un “Hard Border” tra Ulster ed Eire. Il transito senza controlli tra le due regioni che oggi quotidianamente è compiuto da centinaia di persone nei due sensi sarebbe impedito e ricomparirebbe la cicatrice fisica che separa le sei contee dell’Ulster dal resto dell’Irlanda. Di fatto, ciò significherebbe la denuncia del “Good Friday Agreement”. Questo, e non gli accordi commerciali con il resto dell’Europa, è l’ostacolo principale che la Gran Bretagna si trova ad affrontare per svincolarsi dall’UE, cioè una situazione di “doppio vincolo”. Mantenere lo status attuale dell’Ulster vorrebbe dire di fatto rinunciare alla Brexit, ma stendere un “Hard Border” significherebbe affondare un processo di pace mai concluso del tutto. Un enigma senza soluzione.
La “Provisional IRA” dopo gli accordi di pace si è a sua volta scissa in una miriade di formazioni di irriducibili, la “New IRA”, la “Continuity IRA”, la “Real IRA”, le quali non hanno mai deposto le armi e hanno aumentato l’intensità delle loro azioni all’approssimarsi della data della Brexit. Il riaccendersi della violenza settaria è più di una possibilità nel caso di uscita senza accordo della UK dall’UE. L’unico strumento per disinnescare la bomba inesplosa del secolare conflitto angloirlandese è quello democratico.
Se durante i “Troubles” la maggioranza della popolazione dell’Ulster era protestante e unionista, nel rapporto di 1 a 2 rispetto ai cattolici ora, 20 anni dopo, la proporzione si sta ribaltando. I cattolici stanno aumentando di numero e sono quasi la metà della popolazione dell’Ulster, per contro i protestanti unionisti invecchiano o emigrano. Se lasciate decidere liberamente e democraticamente del proprio destino le sei contee del Nord dell’Irlanda, che già hanno votato in maggioranza per il “Remain”, potrebbero scegliere la via del distacco dall’UK e dell’unione con l’Eire, dando avvio a un processo che anche la Scozia pare intenzionata a seguire.
La Brexit, evocata anche dalle nostalgie imperiali britanniche, avrebbe così l’effetto paradossale di disintegrare definitivamente il Regno Unito. Eterogenesi dei fini.