Al secondo giorno (terzo, se contiamo la serata di apertura di martedì scorso), Schermi d’Amore intraprende un viaggio nel tempo attraverso un’America che non c’è più e poi torna al presente, all’India di oggi, per raccontarci la condizione delle donne e una società profondamente divisa in caste.

È sempre un piacere rivedere al cinema un classico che si è amato da ragazzi, e Starman di John Carpenter rientra perfettamente in questa definizione. La filmografia di Carpenter ha solcato gli anni Settanta e Ottanta con una forza autoriale unica nel cinema di genere. Carpenter è sempre stato un regista e sceneggiatore con una voce molto personale, capace di coniugare una visione d’autore con il cinema di intrattenimento ed exploitation, senza mai vergognarsi di farne parte. I suoi film sono di una semplicità disarmante: 90 minuti di durata, concetti immediati e cristallini, grande senso della messa in scena e rigore formale da vendere.

Starman è un capitolo un po’ particolare della sua filmografia, in quanto film realizzato su commissione. Carpenter, in genere, scrive, dirige e compone la colonna sonora. Qui si limita a dirigere una sceneggiatura scritta da altri e affida le musiche al veterano Jack Nitzsche. Anche se, ed ecco un chiaro segnale dell’influenza di Carpenter, Nitzsche arrangia i temi in modo da farli assomigliare alle colonne sonore eseguite con i sintetizzatori tipiche del regista. Tanto per dire, lo aveva fatto anche sua maestà Ennio Morricone prima di lui, con le musiche de La cosa. Il film funziona su più livelli: come road movie dal ritmo perfetto; come love story (siamo qui per questo, no?), grazie a due protagonisti belli e bravi come Jeff Bridges e Karen Allen; come metafora della tendenza auto-distruttiva della specie umana. C’è persino un sottotesto cristologico ribaltato, come si conviene alla visione atea di Carpenter: quando Scott dice a Jenny di averle donato un figlio, che da adulto diventerà un “insegnante”, le lascia però il libero arbitrio: «Se lo vorrai, interromperò subito la gravidanza». È un momento fondamentale per capire il messaggio del film: non sarà certo un intervento divino a salvare l’umanità da se stessa. Abbiamo una scelta: abbandonarci ai nostri peggiori istinti o rimboccarci le maniche per raggiungere la grandezza. Non sprechiamola.

Una bella scoperta di ieri, almeno per me, è stato Breaking Away, alias All American Boys, film di Peter Yates (regista di Bullitt) che fotografa l’America di provincia di fine anni Settanta, in una storia coming of age che si inserisce nel solco di American Graffiti e anticipa il cinema di Richard Linklater, quel modo di raccontare tutto raccontando il nulla che il regista texano ha perfezionato in La vita è un sogno e Boyhood. Al centro del film, quattro amici che si sono appena diplomati e non sanno che fare delle loro vite. La grande promessa che si sono fatti è «sprecarle insieme». Anche qui c’è una metafora semplice ed efficace: i ragazzi vivono in una cittadina dell’Indiana che ospita un college. Come se non bastasse non avere un futuro, sono costretti ad avere a che fare ogni giorno con persone destinate al successo. In un momento che sembra il prototipo del famoso discorso di Matthew McConaughey ne La vita è un sognoIo invecchio, le liceali restano sempre giovani»), Dennis Quaid denuncia la sua frustrazione: lui diventerà vecchio, gli atleti del college resteranno sempre giovani.

Il film si tramuta lentamente in un dramma sportivo, quando i quattro si ritrovano a competere in una gara di ciclismo contro gli studenti del college (in una scena che mette in vetrina la grande abilità di Yates a dirigere l’azione). Sarà Dave (Dennis Christopher) a guidarli verso un riscatto che potrebbe cambiare il corso delle loro vite. Si ride molto in All American Boys, proprio grazie a Dave, ossessionato dall’Italia e dal team ciclistico della Cinzano. Fa impressione notare come il vero protagonista del film sia interpretato dall’unico attore dei quattro a non essere diventato una star. Gli altri sono volti che avrebbero segnato il decennio successivo e oltre: Dennis Quaid, Daniel Stern e un giovanissimo Jackie Earle Haley, futuro Rorschach di Watchmen.

In prima serata, dopo il divertente cortometraggio George Lucas in Love, che racconta la genesi di Star Wars legata a una storia d’amore con annesso colpo di scena, è arrivato l’unico inedito della giornata. Dall’Indiana all’India, Sir, film scritto e diretto da Rohena Gera (suo esordio nel cinema di finzione dopo un documentario), racconta la love story tra il figlio di un ricco imprenditore di Mumbai e la sua domestica, una ragazza proveniente da un villaggio, rimasta vedova a 19 anni. Un amore impossibile nella società indiana, persino nel 2018: troppa la distanza tra le caste che la dividono. Una distanza che puzza di segregazione, di schiavitù: Ratna (Tillotama Shome) sarà pure pagata, ma è costretta a vivere in una stanzetta nella casa del suo “Sir” (Vivek Gomber) e ogni gentilezza di quest’ultimo è guardata con sospetto dai suoi pari, quasi fosse uno scandalo.

Il rischio feuilleton è molto vicino, ma d’altro canto c’è da aspettarselo da una filmografia che, come accade per altre filmografie orientali, fa dello sfoggio dei sentimenti un suo nodo centrale. Eppure Sir convince abbastanza, grazie alla tenerezza dei due protagonisti, e riesce anche a parlare della condizione delle donne indiane senza troppa retorica (e sottolineiamo “troppa”). In questo senso è chiaro il motivo della selezione: Sir fa il paio con il marocchino Sofia nel testimoniare quanto la condizione femminile nel mondo sia ancora estremamente drammatica.

Il bilancio di questa seconda (o terza) giornata è stato più positivo rispetto a quello di venerdì in termini di pubblico accorso. Speriamo che il trend positivo prosegua, in modo da convincere il comune a dare una chance a Schermi d’Amore anche nel 2020.