La madre del piccolo Samuele, ucciso a Cogne il 30 gennaio 2002, ha scontato la sua pena.
La recente notizia della scarcerazione di Annamaria Franzoni ha risvegliato un misto di emozioni forti, dalla tristezza per quel bimbo innocente al disgusto per chi gli ha tolto la vita in quel modo. Le carte della giustizia parlano di una mamma cambiata e reinserita, di riduzione della pena per buona condotta, di un condivisibile diritto all’oblio. L’unica cosa che manca nel faldone è un’ammissione di colpa, anche quando farlo avrebbe potuto indurre clemenza nella corte. La Franzoni, come tutta Italia la chiama, senza appellativi di cortesia, non si è mai dichiarata colpevole perché non si sente colpevole.
Come in casi analoghi, non è stata lei a commettere quei gesti violenti, a sollevare un martello o a premere il cuscino o a spingere la testolina nell’acqua. Non può essere stata lei, sarebbe rinnegare la propria essenza, ammettere di essere una bestia feroce senza pietà nemmeno per i suoi cuccioli. Semplicemente non è concepibile.
L’antidoto alla pazzia è la negazione, con tutti e con se stessi. Rimuovere il gesto, incolparne uno sconosciuto pare il solo modo per sopravvivere alla propria debolezza, per convincersi di meritare ancora la vita. Si immagina in questi casi una personalità patologica, schizofrenica e sarebbe certo più facile pensare a un raptus improvviso; pur con le dovute differenze, la realtà è che le madri assassine compiono gesti molto razionali, si muovono con perfetta lucidità e freddezza. In un libro sul tema del professor Vincenzo Mastronardi, viene definito benissimo il momento in cui esplode la “follia mostruosa della normalità razionale”.
È sbagliato, infatti, associare l’omicidio a uno scatto d’ira, la pazzia di un attimo scientificamente non esiste; si tratta di un percorso involutivo che parte dalle frustrazioni e dal senso di inadeguatezza di tutti i neo genitori. Per le mamme addirittura dai primi istanti, dal senso di vuoto enorme nella pancia, dalla improvvisa solitudine, dalla paura di non riuscire a prenderci cura di quel topolino grinzoso. Ogni mamma si è trovata a combattere con le urla del neonato e con i propri pianti, silenziosi e invisibili.
I primi mesi sono pieni di gioia e novità, di sorrisini e sguardi durante le poppate, mentre il piccolo controlla se ci siamo ancora: alza quelle palpebre trasparenti e pianta sulla sua mamma uno sguardo ubriaco di puro, infinito amore, che nessun altro uomo potrà mai eguagliare.
Sono anche però giornate interminabili, trascorse da soli con un alieno, lunghe ore chiusi in casa come una prigione, accumulando rabbia inutile e senza sfogo, al punto da allontanare chi potrebbe magari darci una mano o farci compagnia. Li chiamano “baby blues” questi momenti di sconforto, complici anche gli ormoni, stravolti da questo crea-cresci-espelli-arrangiati che è, in parole vere, il miracolo della vita.
Ormoni allo sbando, un senso di “insufficienza” e l’impossibilità di capire il piccolo sono tutte concause di una condizione che, se non riconosciuta e affrontata, può portare alla violenza gratuita sul bambino, identificato come il fattore scatenante originario. Esiste però un’altra causa, spesso trascurata o sottovalutata: il sonno. O, meglio, la mancanza di.
Dormire poco può sembrare un problema innocuo, facilmente risolvibile e senza particolari conseguenze. Ma diversi studi hanno chiarito come nelle persone insonni si rallentino i processi di rigenerazione e quanti siano gli effetti negativi sull’umore e le abilità comuni. La privazione del sonno è riconosciuta come metodo di tortura, efficace e subdolo, visto che non lascia tracce. Mentre, infatti, le ripetute violenze fisiche portano il corpo a una specie di assuefazione, un nirvana senza più dolore, costringere la mente a restare vigile con luci, rumori e sollecitazioni, ne piega velocemente volontà e resistenza.
Pensiamo ora alle notti in bianco, seguite da giornate senza riposo, a quella stanchezza che si infila in ogni respiro, a papà che crollano durante la favola della sera, a mamme il cui capo si china mentre sono sedute a tavola, con la forchetta stretta in mano. Le notti insonni non si recuperano più, specie se si susseguono una dopo l’altra per mesi, anni. Piantano un bug nel nostro già difettoso impianto, che scava piano piano. Finché fa un minuscolo buco e viene fuori.
Molti lo hanno rimosso, qualcuno ne parla, di certo nessuno volentieri; ma tutti, ogni mamma e ogni papà, hanno vissuto quell’istante terribile, quando non ce la fai più, tutto appare troppo grande e faticoso e sei da solo contro un nemico che è una parte di te; per tutti c’è stato il lunghissimo attimo in cui, mentre il bimbo piange o fa capricci, scatta un pensiero perverso e stupendo: pensa come starei bene se. Se sei fortunato, succede che ti distrai: forse entra qualcuno nella stanza o squilla il telefono o passa una rondine fuori dalla finestra; oppure il bimbo si calma per miracolo (o intuizione) e con uno sforzo di volontà torni il genitore innamorato che ti viene tanto naturale.
Qualche volta, però, non c’è nessuno intorno, lui non si calma e si aggiunge un nome alla lista dei troppi Samuele, Vittoria, Benedetta, Mirko e tutti gli altri che ho nel cuore mentre scrivo.
Non siamo soli. C’è qualcuno che ha già affrontato e vinto la nostra battaglia, cerchiamo di non dimenticarlo. Parliamone, facciamo attenzione ai segnali, chiediamo aiuto. Siamo tutti fragili e ci spezziamo facilmente. Ma se rimaniamo uniti, magari è più difficile che accada.