Nel match contro il Cosenza, terminato con un rocambolesco pareggio per due a due, il tecnico gialloblù Fabio Grosso ha mandato in campo l’ennesima formazione diversa di questa stagione. Pur disponendo del cosiddetto “doppione” praticamente in ogni ruolo, le scelte operate dall’ex allenatore del Bari hanno visto più di un giocatore collocato in una posizione differente da quella a lui più naturale.
Nella fattispecie abbiamo visto Bianchetti, di professione centrale, schierato nella posizione di laterale basso, il neo arrivato Faraoni sulla fascia sinistra nonostante sia il destro il suo piede “di ordinanza” e il giovane Tupta – autore peraltro del primo dei due gol gialloblù – impiegato come punta esterna, quando la sua peculiarità è notoriamente quella di punta centrale. Senza dimenticare Marrone, dichiaratamente centrocampista, schierato sin dalla prima giornata come difensore centrale alla Mascherano, posizione dove ha sempre lasciato molto a desiderare. E tutto questo con ben due difensori di fascia mancina rimasti in panchina a fare le belle statuine.
La scelta di una formazione è dettata da molte componenti, tuttavia la base di partenza dovrebbe essere, laddove possibile, quella di schierare i giocatori in un ruolo in grado di permettere loro rendere al meglio, secondo le proprie caratteristiche. Obbligarli ad indossare abiti non confezionati su misura, confidando nello spirito e nella capacità di adattamento, se riesce in alcuni casi a sortire qualche effetto positivo, porta con sé anche l’inevitabile conseguenza di non riuscire a sfruttare appieno il giocatore in questione.
Osvaldo Bagnoli, allenatore del Verona scudettato, persona schiva e di poche parole, ma dotato di un bagaglio di semplicità e umiltà non comuni – che farebbero sicuramente comodo al calcio di oggi – ha sempre “banalizzato” i suoi meriti in quella squadra riducendoli al fatto di cercare di mettere sempre i giocatori nella posizione a loro più congeniale, quella in grado di consentire di esaltare le caratteristiche di ciascuno. Parole sicuramente “datate”, ma quanto mai ancora attuali. Così attuali che più di qualche allenatore dei giorni nostri, così fedeli al teorema del nuovo millennio “il modulo prima dei giocatori”, farebbe bene a rivedere il proprio credo tattico. Nel calcio di oggi sembra essere diventato un nuovo dogma sacrificare i giocatori sull’altare del modulo scelto, qualunque cosa succeda. Si tratta, senza ombra di dubbio, di un teorema dai piedi d’argilla, fondato su principi tutt’altro che consolidati. Nonostante ciò, tuttavia, sono sempre più numerosi coloro che vedono in questa nuova corrente di pensiero la nuova innovazione.
La nazionale olandese dei mondiali del 1974 – meglio conosciuta come “Arancia meccanica” – praticava il famoso “gioco totale”. Si trattava di un modulo che non prevedeva ruoli fissi in campo. In quella squadra ognuno era libero di diventare inteprete principale di ogni situazione di gioco che prendeva forma di volta in volta in qualsiasi zona del terreno di gioco. In un certo senso un modulo che qualche mister ha pensato, probabilmente a torto, di poter traslare ai giorni nostri, un’epoca figlia, purtroppo, del tatticismo più esasperato. In quell’undici, guidato da Rinus Michels, la maglia numero 14 era indossata da uno dei migliori talenti mai visti su un campo di calcio, l’indimenticato Johan Crujiff. Ricordato per le sue doti tecniche, il campione olandese – purtroppo scomparso pochi anni fa – ha lasciato in dote anche diverse frasi diventate poi famose. Una di queste recitava: «Il calcio è un gioco semplice ma riuscire a fare le cose semplici sembra essere diventata la cosa più difficile». Probabilmente aveva proprio ragione lui.