“Squali”: il western dell’anima secondo Alberto Rizzi
Il regista veronese racconta il suo film indipendente ispirato a Dostoevskij, girato in condizioni estreme tra le montagne della Lessinia. Una sfida di testa, cuore e… stivali infangati.

Il regista veronese racconta il suo film indipendente ispirato a Dostoevskij, girato in condizioni estreme tra le montagne della Lessinia. Una sfida di testa, cuore e… stivali infangati.
Un film indipendente girato tra neve, vento e nevischio. Una troupe infreddolita, un regista che batte la testa nei cunicoli della Pesciara di Bolca, attori che cantano in fila dietro a un furgone, e la Lessinia che si trasforma in un palcoscenico quasi sacro. “Squali”, l’ultimo lavoro del regista veronese Alberto Rizzi, è una creatura rara: prende spunto da I fratelli Karamazov di Dostoevskij e lo trasforma in un western dell’anima ambientato tra i bellissimi paesaggi che si trovano a due passi da Verona. Lo abbiamo incontrato per farci raccontare com’è nato questo film, cosa c’entra Hitchcock con la sua creatura, e perché lui, che odia la fatica e non ama la montagna, si è ritrovato a raccontare proprio quell’umanità ruvida e altissima che vive sopra le nuvole.
Alberto, cominciamo dalla Lessinia. Una terra che è un personaggio del film. Come sei arrivato fin lassù?
«Per puro caso. Io non sono un appassionato di montagna, anzi: non mi piace fare fatica e in montagna di solito… A mia moglie però piace e un giorno è riuscita a trascinarmi lassù. Di solito arranco un quarto d’ora indietro, col fiatone e l’Oki pronto nello zaino, ma poi è successo qualcosa: ho scoperto un paesaggio che sembrava uscito da un altro mondo. Cercavo un luogo dove ambientare un western senza cavalli, senza pistole: un western dell’anima, tutto interiore. E la Lessinia era perfetta. C’è il Ponte di Veja, le sfingi, un paesaggio quasi mistico… Non lo conosce quasi nessuno, eppure sul grande schermo conserva un fascino incredibile, che non sfigura affatto.»
Hai detto “western dell’anima”: è una definizione molto bella. Come entra Dostoevskij in questa equazione?
«Dostoevskij per me è sempre stato un gigante, e I fratelli Karamazov è uno di quei romanzi che non smetteresti mai di leggere. Lì dentro c’è tutto: il senso di colpa, la fede, il tradimento, l’amore, il male, il dubbio. Ho voluto prendere lo scheletro emotivo di quella storia e calarlo in una realtà diversa, più nostra, ma con la stessa tensione morale. Le montagne mi servivano per isolare i personaggi, spogliarli di tutto il superfluo e metterli a nudo, come succede nel romanzo. Però niente cattedre: volevo anche divertirmi, e far riflettere, senza prediche. È stata una sfida, ma ringrazio i miei produttori Mattia Conati e Andrea Moserle di Magenta Film e Ippogrifo Produzioni per aver creduto in un progetto tanto audace e libero.»
La lavorazione, però, non è stata esattamente una passeggiata. Raccontaci com’è andata.
«Ah guarda, girare un film è sempre complicato. Farlo a Verona, ancora di più. E farlo in Lessinia… è stata un’impresa. A volte sembrava di girare Fitzcarraldo, con la troupe che si arrampicava nel fango trascinando attrezzature. Abbiamo beccato la peggior stagione degli ultimi anni: neve, pioggia, vento, pure un’alluvione. A un certo punto abbiamo dovuto sospendere tutto. Eravamo tutti malati, tutti fradici. Però ci siamo anche divertiti un sacco!»
Hai un aneddoto che riassume quella follia?
«Uno su tutti: la scena dei fratelli che camminano nella notte. Sembra semplice, ma è stata un incubo logistico. Giravamo al Passo Fittanze con un vento gelido che mescolava pioggia e nevischio. Non si vede molto nel film, ma ti giuro che lì era una tempesta. Dovevano camminare, colorarsi, cantare e mantenere la distanza da un furgone che li precedeva. Sembrava una cosa poetica, ma era tutta una lotta contro il freddo e le pendenze… .»
Hai detto che ti sei divertito, ma anche che “avresti fatto cambio con un candidato all’Oscar”… sei stato ironico o un po’ amareggiato?
«Hitchcock, quando girò Gli uccelli, fu massacrato dalla critica per la sua anima commerciale. Un giorno gli chiesero se gli dispiacessero le critiche ricevute, e lui rispose: “Ho pianto per tutto il tragitto da casa mia alla banca”. Ecco, io pure piango… ma quando mi chiama la banca! Scherzi a parte, è ovvio che un film come Squali non è stato pensato per il grande mercato. L’abbiamo fatto con sincerità e se qualcuno esce dal cinema con un paio di domande in più nella testa, allora forse l’ho vinto lo stesso il mio Oscar.»
Nel tuo precedente film, Si muore solo da vivi, si partiva dal dramma per arrivare alla luce. Qui, invece, si resta immersi in una certa cupezza per tutto il tempo. È successo qualcosa ad Alberto Rizzi in questi anni?
«Ma no, non è che mi sia successo qualcosa di preciso… è che mi piace esplorare, cambiare, sporcarmi le mani con cose nuove. Sono “vasto”, contengo contraddizioni, come diceva qualcuno. Però l’ironia non l’ho persa: anche Squali, pur essendo una tragedia, è una tragedia ironica. Ho conservato la mia cifra, diciamo. Solo che stavolta mi sono immerso nel buio dell’animo umano. È stato faticoso, perché tre anni in compagnia di questi fantasmi non sono una passeggiata. Ma è un film che sento molto mio, mi appartiene fino in fondo.»
C’è una scena in particolare che ti è rimasta addosso, anche da spettatore più che da regista?
«Sì, quella tra Alessio ed Elisa, i due ragazzi in camera da letto. Parlano, si confidano, c’è tenerezza, fragilità. È una scena piccola, ma è la mia preferita. Lì non parlo da regista, ma da spettatore: quella scena mi commuove sempre.»
Un’altra scena che colpisce molto è quella della processione. Con la Santa (interpretata da Chiara Mascalzoni) rivolta all’indietro. C’è un significato preciso dietro quella scelta?
«Tutto quello che riguarda la Santa non appartiene a una vera iconografia religiosa. Rimanda certo a un mondo di sante e santoni della tradizione italiana, ma è tutto inventato. La processione è stata la scena più complessa da girare: tantissime comparse, i “trombini” che pesano 30 chili, la banda in sync, l’audio in presa diretta… un incubo logistico.
Fino al giorno prima non sapevo come girarla. Poi mi è venuta un’illuminazione: non dovevamo guardare la processione da fuori, ma stare dentro la processione. Camminare con loro. Scoprire i personaggi passo dopo passo, senza saperlo. È da lì che è nata anche la posizione della Santa, per poterla inquadrare con la chiesa sullo sfondo. E a me piace quando qualcosa non è canonico: il mantello, la mano di Fatima con l’occhio… Non è cattolica, ma mi interessa proprio per questo. Mi piace ciò che è sbagliato.»
Sbagliato, ma vivo. Come la festa di paese che metti in scena.
«Esatto. A me non interessa il realismo. La realtà, diciamocelo, è spesso noiosa. Quello che mi affascina è tutto ciò che si svincola dalla realtà, tutto quello che spinge più in là. E in quella scena della processione ho avuto la conferma di aver fatto bene. Molti colleghi si preoccupano dello “stile”, della coerenza formale. A me non interessa. Io penso solo: “Qual è il modo migliore per raccontare questa scena?”. Tutto il resto viene dopo. Non mi faccio problemi se quello che giro non è “manualistico”. Anzi, se una cosa è sconsigliata dai manuali, di solito è quella giusta da fare. E allora la faccio. Mi diverto di più.»
Sul set di Squali pare ci fosse anche un certo… spirito goliardico.
«Ah, sì, siccome abbiamo fatto spogliare quasi tutti gli attori a un certo punto fra loro hanno iniziato a scommettere su chi avesse il fondoschiena migliore. È nata una riffa interna al cast! Mirko (Artuso, ndr) si è anche offeso perché lui, al contrario di tutti gli altri, non l’abbiamo mai fatto spogliare!»
A proposito di Artuso, com’è nato il suo coinvolgimento?
«È stato naturale. Nel 2021 mi ha chiamato lui e mi ha detto: “Alberto, facciamoci un film libero”. All’inizio c’eravamo solo io e lui. Poi è cresciuto tutto attorno a quella chiamata. È entrato nella creazione fin da subito.»
A parte questo hai parlato di un lavoro molto intenso con gli attori. Che rapporto si è creato sul set?
«Bellissimo. Gli attori hanno capito il progetto e ci si sono affidati. Abbiamo fatto sopralluoghi insieme, vissuto il film molto prima delle riprese, con un anno intero di prove. Mirko Artuso ha dato al film un’interpretazione totale, fisica: ha perso la barba, le unghie, mesi di vita. Diego Facciotti, che fa Ivan, si è messo a dieta, è andato in palestra, ha cambiato corpo. Un impegno che al cinema, spesso, non c’è: in genere ti danno il copione il giorno prima e stop. Qui no: ci siamo dedicati davvero.»
C’è una scena particolare, nella “stanza dei giochi” di Leone, piena di libri. Ha un significato simbolico?
«Quando ho fatto vedere il set a una signora mi ha chiesto: “Ma sei sicuro di voler mettere tutti questi libri?” E io ho risposto: “Certo. Perché Leone non è ignorante. È colto, molto colto. Ma ha scelto di essere come è. Nessuno l’ha costretto. Ha scelto il disprezzo, ha scelto di vivere nell’immondizia.” Nella scena in chiesa fa un discorso teologico-politico molto sofisticato. Dice: “Io sono un buffone, il padre della menzogna”. Parla in latino. Non è come i figli, che sono goffi e incapaci. Lui è lucido, sa maneggiare il potere, i soldi, le donne. Quella stanza è il suo regno. È una mente contorta, ma strutturata.»
Anche qui torna l’idea del conflitto familiare, con Leone che mette tutti contro tutti.
«Sì, Leone ha questa grande capacità: seminare zizzania. È uno stratega, uno che riesce sempre a dividere. In questo è molto moderno, molto contemporaneo. È uno di quei personaggi che, se esistessero davvero, farebbero paura.»
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