Pfas non inquinano soltanto l’acqua, ma anche la terra. A farne le spese sono spesso gli agricoltori, che subiscono conseguenze poco raccontate dal punto di vista economico e sociale. Questo lato meno noto della contaminazione causata dagli “inquinanti eterni” – che in Veneto interessa con maggiore intensità 30 comuni della cosiddetta “area rossa” tra le province di Vicenza, Verona e Padova – è l’oggetto di studio di Giovanni Lorenzi, antropologo ambientale dell’Università Ca’ Foscari Venezia, che sul tema nel 2024 ha pubblicato un articolo sulla rivista Archivio Antropologico Mediterraneo (a questo link), frutto di un’indagine condotta tra novembre 2022 e marzo 2023 per la sua tesi di laurea magistrale in Environmental Humanities. La ricerca evidenzia come la contaminazione non impatti solo l’ambiente e la salute, ma anche le dinamiche sociali ed economiche delle comunità locali, come ci racconta Lorenzi in questa intervista.

Per quale motivo hai deciso di approfondire il tema dell’agricoltura nei territori contaminati da Pfas in Veneto?

«La questione Pfas-agricoltura è l’elefante nella stanza di tutto il dibattito sull’inquinamento nella nostra regione. Non credo sia un caso il fatto che questo tema non fosse stato ancora affrontato dalle scienze sociali. In generale, oltre qualche iniziativa passata in sordina, le esperienze e le prospettive degli agricoltori e delle agricoltrici in Veneto sono state poco raccontate e per questo motivo ho deciso di approfondire questo tema. In particolare, sono stato sorpreso nell’apprendere che dopo gli operai della Rimar-Miteni erano gli agricoltori e le agricoltrici ad avere le più alte concentrazioni di Pfas nel sangue. In quest’epoca, quando si affrontano problemi così complessi come un disastro ambientale del genere, l’approccio è spesso votato unicamente alla ricerca di soluzioni tecnologiche e prettamente scientifiche. Non ci si chiede cosa ci sia oltre i numeri, le concentrazioni e cosa succeda dentro le comunità. Le esperienze e le prospettive di chi lavora la terra nell’incertezza della presenza di questi inquinanti eterni non sono ancora state adeguatamente raccontate.

Tuttavia, i Pfas continuano a viaggiare nel ciclo dell’acqua e nella catena alimentare. Sono invisibili e i loro effetti avversi sulla salute dell’essere umano e degli animali possono emergere anche a distanza di decenni. Poi, ci sono altre questioni che mi attraevano. Per prima cosa il Veneto è una delle regioni più importanti a livello agricolo del territorio italiano. Secondo i dati ISTAT nel 2020 era la quarta regione per numero di aziende agricole del paese. È una regione che ha avuto per secoli, ed ha tuttora, una vera e propria vocazione agricola. Prima di lasciare spazio ai capannoni disordinati del Veneto industriale che tutti conosciamo oggi, era per lo più uno spazio geografico dedito all’agricoltura. Dalla pellagra al “metalmezzadro” fino ai giorni nostri, la storia dell’agricoltura e di chi la compone può raccontare tanti aspetti dell’ecologia della regione.»

Quanti agricoltori hai intervistato, in che zona e di che tipologia e dimensioni sono le aziende agricole sentite?

«Ho contattato circa 50 aziende situate nelle zone mappate dalla regione, dando la priorità alle zone più colpite, quella rossa e quella arancione. Per lo più ho ricevuto silenzio e rifiuti, in alcuni casi affiancati da un’esplicita negazione del problema. Queste risposte sono dati preziosi che si sono sommati all’esperienza e alle prospettive delle sette aziende che hanno partecipato attivamente alla ricerca. Gli agricoltori e le agricoltrici di queste aziende mi hanno mostrato come e dove lavorano e, naturalmente, hanno condiviso quello che hanno vissuto in quanto abitanti, agricoltori e agricoltrici nelle zone contaminate dai Pfas. Si tratta di attività agricole di piccola dimensione, alcune a conduzione familiare, formate da un minimo di due a un massimo di circa una quindicina di dipendenti. Probabilmente non è un caso che alla ricerca abbiano partecipato anche realtà agricole che oltre a lavorare la terra collaborano con cooperative sociali o sono esse stesse registrate come tali.»

Quali difficoltà stanno affrontando gli agricoltori intervistati in relazione all’inquinamento da Pfas – sia dal punto di vista imprenditoriale sia da quello personale?

«La ricerca sul campo è stata condotta tra il 2022 e il 2023. Trattandosi di piccole aziende agricole, ho riscontrato molta sofferenza dal lato economico, un generale senso di rassegnazione e impotenza di fronte a quella che è considerata da alcuni una presenza misteriosa e inesorabile. All’epoca, alcune aziende mi hanno raccontato lo stigma che hanno vissuto quando, ad esempio, portavano i loro prodotti nei mercati e nei supermercati o si relazionavano con la clientela. In questi casi, le aziende agricole venivano identificate come provenienti dalla zona rossa o arancione e, di conseguenza, i clienti tendevano a evitarle.

In generale, le conseguenze imprenditoriali si mescolano a quelle personali. Il danno economico, che peraltro è inquantificabile, ha accentuato l’incertezza e contribuito al consolidamento del profondo senso di impotenza di fronte a questi inquinanti subdoli. Questi fattori si aggiungono alla già nota precarietà economica di questa parte del settore agricolo veneto. Le aziende in questione subiscono sempre più gli effetti del cambiamento climatico causato dall’attività umana, dovendo affrontare le molteplici conseguenze di una posizione geografica critica: la Pianura Padana, una delle aree più industrializzate e inquinate d’Europa.»

Che sensazioni ti hanno trasmesso le politiche pubbliche, in particolare della Regione Veneto e del sistema sanitario locale, riguardo il problema dei Pfas?

«A distanza di due anni, la consapevolezza sui Pfas è probabilmente cresciuta nel nostro paese. A Vicenza c’è un processo in corso e questo potrebbe segnare un solco nella storia ambientale italiana. Come sottolineato dal Relatore Speciale ONU per le sostanze tossiche e i diritti umani Marcos Orellana, in Veneto sono stati violati i diritti umani. Non solo il governo regionale ha agito in ritardo nell’affrontare la situazione a livello sanitario, ma anche riguardo la questione alimentare e agricola le azioni istituzionali sono state ritardate o assenti. In aggiunta, al mancato supporto economico per affrontare le spese di analisi sui prodotti, sul suolo e sull’acqua delle aziende agricole, si è aggiunto un silenzio “assordante” da parte delle istituzioni. In alcuni casi, gli agricoltori hanno cercato invano supporto dagli enti pubblici locali e regionali e sono stati costretti a farsi carico di una responsabilità non loro.»

Che rapporto c’è tra i movimenti No Pfas e gli agricoltori?

«Uno degli effetti secondari della contaminazione da Pfas, che è stato ulteriormente amplificato dall’inadeguatezza dell’intervento pubblico, è la frammentazione che la risposta all’inquinamento ha causato all’interno delle comunità colpite. Alcuni agricoltori hanno condiviso con me il timore di essere stati additati come inquinatori dai movimenti che si sono spesi in questi anni per chiedere giustizia, come le Mamme NoPfas. È paradossale come siano proprio le mamme con Greenpeace Italia insieme anche ad altri gruppi di attivisti ad essere state più vigili e pronte nel cercare chiarezza sulla questione agricola e alimentare nei territori contaminati. Come ho detto prima, il generale clima di paura e stigma è il risultato dell’assenza di un intervento statale chiaro e della scelta di aver lasciato gli agricoltori soli. Questo non ha danneggiato tutti ugualmente, a rimetterci sono stati soprattutto i piccoli agricoltori che hanno spesso un rapporto più stretto con la comunità colpita perché più vicini e coinvolti. Scegliere di lasciare le piccole aziende agricole da sole a gestire la contaminazione si è tradotto nell’assenza di supporti, strumenti o linee guida efficaci per provare almeno a comprendere la questione. A cascata le associazioni di categoria hanno fatto lo stesso, impossibilitate ad offrire un supporto economico.

Nel silenzio istituzionale, gli agricoltori hanno deciso arbitrariamente come agire. C’è stato chi si è pagato le analisi di tasca propria, chi le ha anche mostrate tramite i canali social o nel proprio negozio, c’è stato anche chi ha fatto costruire un nuovo pozzo testando la presenza degli inquinanti per trarne acqua meno contaminata possibile, pur non denunciando di averlo costruito, una prassi comune nel settore agricolo veneto. E infine c’è stato anche chi ha deciso di evitare di affrontare la questione. Per esempio, uno dei partecipanti mi ha raccontato di come alcuni colleghi avessero deciso di vendere i propri prodotti agricoli in zone più lontane da quelle colpite dal clamore mediatico della vicenda Pfas. Questo avveniva nei mercati per non essere riconosciuti come agricoltori provenienti dalle zone contaminate.»

Hai incontrato buone pratiche o esempi di dialogo positivo tra agricoltori e consumatori consapevoli nelle aree contaminate?

«Come ho detto, gli agricoltori e le agricoltrici che hanno partecipato alla ricerca sono tutti, chi più chi meno, persone che hanno un rapporto diretto con la loro clientela. Alcuni danno molta importanza al modo in cui fanno agricoltura, seguendo principi etici e preferendo la qualità e il rispetto ecosistemico alla produttività. Non si tratta solo di agricoltura biologica (la cui certificazione non prevede nessun controllo di concentrazioni di PFAS) ma di pratiche agroecologiche ancora più lontane dalla produzione intensiva e a grande scala. Si tratta di eccezioni e non credo sia un caso che siano state proprio queste tipologie di aziende a concedermi il loro tempo durante il mio studio. Tuttavia, una cosa che mi ha colpito è stato l’isolamento che gli agricoltori e le agricoltrici hanno vissuto e probabilmente tuttora vivono. Ho constatato come la comunicazione all’interno del settore agricolo tra le aziende locali sia rara. Nella precarietà della vicenda, non c’è stata una vera e propria risposta comune del settore, piuttosto ho percepito una silenziosa rassegnazione. Con maggiori risorse si potrebbe indagare anche come una parte della comunità ha risposto alla contaminazione. Ci sono state alcune iniziative nate dal basso che hanno provato a colmare il vuoto istituzionale offrendo alternative al consumatore e al produttore. Per esempio, sono stati organizzati mercati “Pfas free” e spazi per gli agricoltori e le agricoltrici. Queste iniziative dal basso sono state coordinate da attivisti che lavorano da anni sulla questione Pfas nel vuoto lasciato dalle istituzioni.»

Articolo a firma di Giulio Todescan, uscito su Vez.News, partner di Heraldo

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