Attraverso la vicenda di Jamie Miller, un tredicenne coinvolto in un grave episodio di devianza, Adolescence offre uno sguardo profondo sul mondo interiore adolescenziale, evidenziando tensioni e vulnerabilità spesso invisibili agli occhi degli adulti. Tematiche quali bullismo, misoginia interiorizzata, violenza digitale e assenza di riferimenti educativi non emergono soltanto come elementi narrativi, ma come rappresentazioni di vere e proprie emergenze psicologiche. La scelta registica del piano sequenza, fortemente immersiva, amplifica l’impatto emotivo della narrazione e risuona in modo particolare presso il pubblico giovane.

La costruzione dell’identità: tra appartenenza e disorientamento

L’adolescenza, come noto, rappresenta una fase di riorganizzazione dell’identità in cui il soggetto si trova a negoziare nuovi significati di sé nel contesto delle relazioni sociali (Erikson, 1968). In Adolescence, tale processo appare ostacolato da una pressione sociale costante e da una visione profondamente instabile di ciò che significa “essere accettati”.

Jamie e i suoi coetanei oscillano tra autenticità e conformismo, nel tentativo di ottenere riconoscimento e appartenenza all’interno del gruppo dei pari. Tuttavia, questo stesso gruppo può trasformarsi in un ambiente critico e punitivo, capace di generare vissuti di vergogna, esclusione e auto-svalutazione.

Il bullismo, presente nella serie in forme esplicite e sottili, non è solo un atto aggressivo ma una dinamica relazionale complessa in cui il persecutore e la vittima co-costruiscono ruoli rigidi e disfunzionali. Secondo il modello sistemico-relazionale (Pellai & Tamborini, 2021), questi episodi riflettono un’interazione patologica tra bisogni di potere, identità fragili e ambienti carenti di contenimento emotivo.

Misoginia e modelli tossici: la cultura patriarcale interiorizzata

Uno degli elementi più disturbanti della serie è la rappresentazione della misoginia tra adolescenti. Non si tratta di episodi isolati, ma di una cultura diffusa, interiorizzata e normalizzata, che legittima comportamenti sessisti, svalutanti e violenti.

In questa cornice, le dinamiche di genere appaiono precocemente polarizzate e rigide, con una significativa adesione a modelli maschili dominanti e ipercompetitivi. Il riferimento teorico al concetto di “mascolinità egemonica” (Connell, 1995) risulta utile per comprendere come certi atteggiamenti siano funzionali a mantenere status e appartenenza, ma al prezzo di inibire l’empatia, l’espressione emotiva e la costruzione di relazioni paritarie.

L’assenza di uno spazio educativo in cui riflettere criticamente su affettività, sessualità e rispetto reciproco lascia gli adolescenti esposti alla riproduzione inconsapevole di stereotipi. La serie ci invita a considerare, in chiave preventiva, l’importanza dell’educazione socio-affettiva, come già sottolineato da autori quali Galimberti (2007) e Nardone (2013), nel favorire la maturazione emotiva e relazionale.

Il vuoto degli adulti: l’assenza come fattore di rischio

Un elemento centrale della narrazione è l’assenza, affettiva prima ancora che fisica, delle figure adulte. Genitori disorientati, insegnanti impotenti, educatori assenti: la mancanza di contenimento e di riconoscimento da parte del mondo adulto rappresenta una costante nella vita di Jamie.

Secondo Winnicott (1965), l’adolescente necessita di uno “spazio potenziale” in cui esplorare e disorganizzarsi, sapendo però di poter contare su un ambiente sufficientemente affidabile. Quando questo spazio viene a mancare, il rischio è che l’adolescente cerchi modalità alternative, spesso sintomatiche, per comunicare la propria sofferenza: agiti, isolamento sociale, ritiro depressivo o somatizzazioni.

La rabbia di Jamie, la sua chiusura emotiva e il suo comportamento deviante sono, in quest’ottica, espressioni di una richiesta di ascolto radicale. Le persone che condividono lo spazio di vita degli adolescenti sono chiamati a riconoscere questi segnali e a proporre spazi di cura che non siano solo correttivi, ma profondamente comprensivi del mondo interno dell’adolescente.

Social media e identità performativa: lo sguardo dell’altro come dipendenza

Un ulteriore tema psicologicamente rilevante messo in luce dalla serie è la pressione legata all’iper-esposizione digitale. I social media non sono semplicemente strumenti comunicativi, ma veri e propri palchi identitari (Turkle, 2011), dove gli adolescenti recitano ruoli, costruiscono narrazioni di sé e si espongono a giudizi continui.

Il bisogno di riconoscimento, normale nella fase adolescenziale, rischia di trasformarsi in una dipendenza dallo sguardo altrui, con ripercussioni importanti sull’autostima e sull’integrità dell’identità personale. Numerosi studi (Twenge, 2017; Montag & Walla, 2016) hanno ormai evidenziato la correlazione tra uso intensivo dei social, aumento dell’ansia sociale e sintomi depressivi nei giovani.

Nella pratica clinica e nei contesti scolastici, ho spesso incontrato adolescenti intrappolati in un rapporto ambivalente con la rete: attratti dalla possibilità di esprimersi, ma al tempo stesso schiacciati dal confronto e dalla ricerca di validazione esterna. L’educazione all’uso consapevole degli strumenti digitali, dunque, non può più essere considerata un optional, ma parte integrante della promozione della salute mentale.

Un nuovo patto educativo e terapeutico

Adolescence non è solo una narrazione fictionale, ma una rappresentazione metaforica di ciò che oggi accade nelle menti e nei corpi degli adolescenti. La sofferenza silenziosa dei protagonisti ci interpella come psicologi, educatori e adulti: ci chiede di essere più presenti, più formati e più capaci di ascoltare.

In un tempo in cui l’adolescenza è esposta a trasformazioni rapidissime, è urgente costruire un nuovo patto educativo e terapeutico, che coinvolga scuole, famiglie e professionisti della salute mentale. Promuovere spazi di dialogo, prevenzione e cura significa oggi contribuire non solo al benessere individuale, ma alla tenuta sociale collettiva.

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Bibliografia

Connell, R. W. (1995). Maschilità. Milano: Feltrinelli.

Erikson, E. H. (1968). Identity: Youth and Crisis. New York: Norton.

Galimberti, U. (2007). L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani. Milano: Feltrinelli.

Montag, C., & Walla, P. (2016). Carrying the smartphone addiction into the brain: Link between excessive social media use and reduced grey matter volume. Behavioral Brain Research, 311, 210–211.

Nardone, G. (2013). La paura delle decisioni. Quando scegliere è troppo difficile. Milano: Ponte alle Grazie.

Pellai, A., & Tamborini, B. (2021). Vietato ai minori di 14 anni?. Milano: De Agostini.

Turkle, S. (2011). Alone Together: Why We Expect More from Technology and Less from Each Other. New York: Basic Books.

Twenge, J. M. (2017). iGen: Why Today’s Super-Connected Kids Are Growing Up Less Rebellious, More Tolerant, Less Happy – and Completely Unprepared for Adulthood. New York: Atria Books.

Winnicott, D. W. (1965). Il bambino, la famiglia e il mondo esterno. Roma: Armando Editore.

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