Droga e guerra: come gli stupefacenti alimentano i conflitti
Il generale Gennaro Scala, che ha lottato per anni contro il narcotraffico, spiega gli intrecci tra spaccio internazionale, economia e politica.

Il generale Gennaro Scala, che ha lottato per anni contro il narcotraffico, spiega gli intrecci tra spaccio internazionale, economia e politica.
«Non si può capire la guerra senza conoscere le droghe. E non si possono capire le droghe senza conoscere la guerra». Con questa incisiva citazione di Peter Andreas – tratta dal saggio Killer High – si apre l’intervista al generale dei Carabinieri Gennaro Scala, figura emblematica della lotta al narcotraffico. È un viaggio che affonda le radici in un intreccio millenario, forse iniziato nel rigoglioso giardino dell’Eden, con la rossa mela del peccato: la prima sostanza capace di alterare la percezione e segnare la caduta dell’uomo.
Con Adamo ed Eva siamo, infatti, di fronte a un presagio biblico di una lunga storia di psicoattivi, che hanno accompagnato l’umanità in ogni epoca e latitudine: dall’uso rituale di alcol in Mesopotamia, alle anfetamine della Seconda Guerra Mondiale, fino alla coca masticata dagli Inca per aumentare la ferocia in battaglia. Proprio la guerra si rivela infatti il terreno ideale per il fiorire di questo mercato nero: un laboratorio di strumenti capaci di modellare l’uomo in condizioni estreme. Tanto da diventare non solo sostanze tollerate, ma persino incentivate dagli Stati, assumendo un ruolo chiave nelle relazioni geopolitiche ed economiche globali. Un intreccio di interessi che si dipana nei secoli come un’eterna partita a Risiko.
Contro questo traffico, il Generale Scala ha combattuto per tutta la carriera, operando su fronti cruciali: dalle strade di Verona negli anni ’70 – soprannominata la “Bangkok d’Italia” – alle missioni in America Latina. Le sue parole promettono quindi di svelare il volto nascosto di un matrimonio indissolubile, offrendo una prospettiva unica e interna sulla connessione tra droga e guerra.
Generale Scala, concorda con l’affermazione che non si possono capire le guerre senza conoscere le droghe?
«Sono d’accordo. Il saggio di Peter Andreas è interessante e storicamente avvincente, confermando la rilevanza del problema. L’autore evidenzia una simbiosi che risale alla notte dei tempi: infatti, le prime prove di somministrazione di “droghe” – in quel caso alcol – risalgono alla Mesopotamia e arrivano fino ai giorni nostri. Anche oggi, osservando le immagini sulla guerra in Ucraina, si vedono spesso soldati che caricano un’arma con una sigaretta all’angolo della bocca. Quindi è effettivamente un’osmosi, un binomio antico e inscindibile, quello tra guerra e droga.»
Nella storia, quali sono state le droghe più usate nei conflitti?
«Le principali sono sei: alcol, tabacco, caffeina, oppio, anfetamine e cocaina. Ognuna con effetti stupefacenti o psicotici di diversa intensità.»
Quali vantaggi offre l’uso di sostanze stupefacenti in battaglia?
«Queste sostanze agiscono sugli ormoni naturali, detti del benessere: dopamina, adrenalina, serotonina, endorfine. Il militare è un uomo chiamato a difendere un interesse superiore e collettivo: non è un automa, ma una persona che affronta paura, angoscia e il pensiero della morte. Superare dilemmi morali ed etici non è tanto semplice: sparare a un nemico non è come guardare uno schermo. I fenomeni di diserzione lo dimostrano. Da qui la necessità di incidere sulla psicologia del combattente, o quantomeno di aiutarlo a superare fatiche, ansie e sofferenze. Ma anche freddo, neve, fango nelle trincee: a volte la guerra supera la più violenta sceneggiatura di un film.»
Ci sono esempi di Stati che hanno incentivato l’uso di droghe in battaglia?
«Sì. Un esempio sono le “Razioni K”, le famose scatolette dei pasti giornalieri distribuite ai militari, che anche in Italia contenevano cioccolato, bustine di cordiale e sigarette. Alcuni governi hanno però oltrepassato le barriere etiche e morali, somministrando farmaci e sostanze eccitanti, per aumentare il coraggio. C’è tutta una serie di casi che lo dimostrano. La guerra del Vietnam ha, per esempio, visto l’esplosione dell’eroina fra le truppe americane, che ha poi generato il fenomeno delle “droghe dopo la guerra” tra i veterani. Negli anni ’50, la Cia ha condotto perfino esperimenti eugenetici (Project Artichoke e Mkultra) su truppe americane e canadesi inconsapevoli, per studiare gli effetti biologici, neurologici e cognitivi delle droghe. Dunque, il problema è una realtà consolidata nel tempo, nello spazio e in ogni contesto sociale.»
A proposito di “droga dopo la guerra”: il cinema offre una finestra interessante sul consumo di sostanze per affrontare lo stress post bellico.
«American Sniper, Shooter, Enemy at the Gates: sono titoli che raccontano le tragiche vicende dei veterani delle guerre di Corea, Vietnam, Iraq e Afghanistan. Mostrano l’abuso di alcol e droghe – metamfetamine, allucinogeni, eroina – per alleviare traumi e ferite. Gli effetti sulla personalità sono devastanti. Lo stress post-bellico è inoltre un problema sociale ed economico grave, che attanaglia famiglie e interi contesti locali. Soprattutto negli Stati Uniti, dove oggi si aggiunge l’emergenza Fentanyl.»
In merito al Fentanyl, oggi negli USA si parla di un’epidemia.
«Nel 2024, a New York, sono rimasto sconvolto dalla quantità di zombie umani a Times Square e nella metropolitana: una situazione impressionante. Le autorità stimano 100 mila morti all’anno: sono però cifre in difetto, che fanno impallidire quelle provocate dall’eroina. Già l’amministrazione Biden aveva ipotizzato che dietro la diffusione ci fossero fattori geopolitici ed economici.»
Il Presidente Donald Trump ha infatti giustificato i dazi su Messico, Colombia e Canada come un freno al traffico di Fentanyl e all’immigrazione irregolare.
«Trump è stato attaccato duramente, ma i risultati ci sono stati. Inizialmente ironico, il primo ministro canadese Justin Trudeau ha riconosciuto infatti che il Fentanyl e i suoi precursori chimici arrivano legalmente in Canada dalla Cina, per poi passare negli Stati Uniti con facilità. Sono sostanze provenienti da note multinazionali, che si avvalgono di triangolazioni, non potendo esportare direttamente in un Paese. Anche la Colombia ha dovuto schierare polizia ed esercito al confine con Venezuela e Panama. La reazione della criminalità non si è fatta attendere: il più grande casello autostradale è saltato in aria.»
Questo mercato illegale è inarrestabile: chi cade, viene subito rimpiazzato.
«È una verità del traffico di droga. A partire dai “cavalli” e dai pusher, gli ultimi anelli della catena, facilmente sostituibili perché spesso tossici loro stessi. Molti poi sono giovani appartenenti a baby gang, attratti dai guadagni facili: anche 5-6 mila euro al mese. È difficile, quindi, convincerli a cambiare vita, anche quando c’è la possibilità di un’occupazione onesta e stabile. Lo stesso meccanismo di successione vale anche per la produzione: il programma di eradicazione delle piantagioni di coca in Sud America è un esempio calzante in tal senso. In passato, l’Onu aveva previsto un piano in grado di favorire i campesinos, sostituendo la coltivazione di coca con quella di patate. Un discorso simile fu fatto in Afghanistan per il papavero da oppio. Una follia: se con le patate guadagnavano 1 e dovevano faticare, con la droga guadagnavano 1.000 senza sudare troppo. Dunque, il problema è anche sociale, con riflessi economici importanti.»
Ha citato l’Afghanistan, per anni leader nella coltivazione dell’oppio. Oggi com’è la situazione?
«In questo contesto oggi c’è una novità: il regime talebano, dopo aver sfruttato l’oppio per finanziare i “signori della guerra”, ha stroncato la coltivazione e il traffico in Afghanistan. Il fenomeno si è quindi spostato in Laos, Myanmar e Thailandia, ripristinando il “Triangolo d’Oro”. È un ciclo continuo: quando il traffico viene ridimensionato in un’area, un’altra prende il suo posto, con un vero e proprio trasferimento di competenze e di appropriazione del mercato. Sono fenomeni che non si estinguono: fanno parte della Storia dell’umanità.»
Il Captagon, un’amfetamina, ha recentemente invaso il Medio Oriente. Cosa succede?
«Dopo la caduta di Bashar al-Assad, è stata rinvenuta un’industria con ingenti quantità di Captagon: una sostanza utilizzata dal governo siriano e dai movimenti terroristici e rivoluzionari di Hamas e Isis. Nessuno sfugge a questa triste realtà: i fedeli radicalizzati non sono extraterrestri, sono uomini e donne con le loro paure. Per convincere un adepto a indossare un giubbetto esplosivo, è quindi necessario alterare percezione e stato mentale. La religione può motivare, ma serve una spinta ulteriore. E la droga è da sempre un mezzo di controllo e manipolazione per agire contro natura.»
Secondo la sua esperienza, è efficace tenere in carcere i tossicodipendenti?
«Non l’ho mai ritenuto utile, sia per la mia formazione e convinzione garantista, sia perché il carcere non è un luogo di cura: è una scuola di crimine e decadimento psicofisico. Non è un sanatorio, né un luogo di assistenza: l’astinenza non viene monitorata, né gestita. Inoltre, le droghe circolano e i casi di abuso – come l’inalazione del gas delle bombolette – sono frequenti. La terapia metadonica a volte prescritta è infine soltanto un palliativo, che non risolve il problema. Né appare sufficiente il supporto psicologico e psichiatrico previsto. Già negli anni ’70 sostenevo quindi soluzioni alternative al carcere. L’entrata in vigore nel 1975 del Testo Unico sulle sostanze stupefacenti e psicotropiche, mi ha infatti convinto che le alternative sono possibili. Purtroppo, l’iniziativa è stata lasciata a privati e associazioni volontarie, come le comunità di recupero, spesso osteggiate.»
Cosa pensa della legalizzazione o liberalizzazione delle droghe?
«Sono contrario. Le spiego con un esempio: se la droga fosse legale, chiunque potrebbe acquistarla in farmacia. Ottenuta la propria “modica quantità”, si avrebbero due opzioni: accumularla o cederla a chi, per motivi reputazionali, non vuole acquistarla direttamente. Questo creerebbe un “mercato grigio” difficile da controllare, ancora una volta nelle mani della criminalità organizzata. Se milioni di persone avessero accesso legale alla droga, inoltre, aumenterebbero i rischi per la sicurezza stradale e sul lavoro. Non dobbiamo poi dimenticare il ruolo degli Stati. La storia dimostra il fallimento delle politiche sulla droga: dalle guerre per l’oppio tra Cina e Impero Britannico, al Plan Colombia sviluppato dagli Stati Uniti per eradicare le piantagioni di coca. Quando in Sudamerica discutevo con colleghi di Dea e Fbi sul problema dei cartelli, sostenevo che potevamo tenerli sotto controllo con strategie preventive e repressive. Così non è stato: il Plan Colombia è fallito, devastando ambiente e società. Ha solo consentito ai movimenti guerriglieri di arricchirsi e autofinanziarsi, proseguendo nell’insensata guerra civile che ha causato oltre 220.000 morti in circa 60 anni. Legalizzazione o liberalizzazione sono dunque un’utopia: non risolverebbero il problema, anzi, lo amplificherebbero.»
Come si può allora contrastare il fenomeno?
«Tutte le strategie finora adottate non hanno risolto il problema, ma almeno lo hanno contenuto. Le mafie transnazionali e la criminalità organizzata possono essere combattute, tuttavia il fenomeno è complesso: coinvolge molti attori, diversi contesti, differenti interessi. Oggi, inoltre, esistono nuove “droghe”, come i social network, che influenzano, manipolano e determinano vittime e comportamenti malevoli e perniciosi. È necessaria, quindi, innanzitutto una nuova pedagogia per recuperare valori e principi ritenuti desueti. Una didattica che faccia comprendere il significato di sostantivi quali “libertà”, “diritti” e “doveri”, così da ripristinare un equilibrio non più fragile e illusorio. Forse è il momento di rileggere Platone e rifondare la società su educazione, formazione e rispetto reciproco.»
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